Il presente report racchiude una sintesi dei temi affrontati in occasione del Convegno annuale dell’Associazione Italiana di Studio delle Relazioni Industriali (AISRI), tenutosi a Pescara nei giorni 25-26 settembre 2015.
La variante italiana nei tentativi di classificazione dei sistemi di relazioni industriali
Il quadro delle tendenze in atto nel sistema di relazioni industriali europeo suggerisce che le somiglianze tra i vari paesi sono sempre più sfumate. Al massimo, si tratta di convergenze al ribasso. Da questo punto di vista, infatti, i sindacati contano sempre meno pressoché ovunque (M. Carrieri), e le iniquità sociali e salariali crescono, con forti dubbi circa la tenuta del sistema socioeconomico (M. Keune). I trend sono poi amplificati dall’impatto delle politiche dell’Unione Europea, spesso tradotte in moderazione salariale e rigore, nonché da un diffuso processo di decentramento contrattuale, non sempre virtuoso e organizzato (M. Keune).
Entro questo scenario, l’Italia registra dei tratti peculiari che sono sconosciuti agli altri partner europei. Il nostro Paese, ad esempio, mostra una tendenziale e relativa tenuta delle organizzazioni di rappresentanza, una certa fiducia nella contrattazione collettiva, il mantenimento di un’alta copertura contrattuale, il forte sviluppo di nuovi istituti contrattuali, quale il welfare integrativo, la diffusione della bilateralità, nonché un limitato ricorso ai canali di deroga, con un’azione sindacale che, ancora, arriva spesso ad abbracciare il tessuto sociale (I. Regalia). L’ Italia sembra allora porsi in una posizione enigmatica nel mappamondo delle relazioni industriali, come un sistema fuori dagli schemi tradizionali, non più catalogabile, qualora lo fosse mai stata, nella famiglia mediterranea (M. Carrieri, R. Pedersini, I. Regalia, U. Rehfeldt). Ma forse, ha notato M. Keune, oggi alle relazioni industriali italiane, e alla ricerca nel campo, servono più idee che categorie.
Tra decentramento e contrattazione transnazionale
Iniquità, politiche di austerità, decentramento disorganizzato e indebolimento del sindacato, fanno affiorare molti punti interrogativi. La contrattazione collettiva, in senso lato, è allora chiamata ad uno sforzo significativo, dovendo assicurare equità e bilanciamento tra interessi diversi (M. Keune).
Soluzione alle spinte verso un mercato sempre più globale potrebbe essere una contrattazione in grado di fissare delle regole valide oltre i meri confini nazionali. A. Alaimo, su tutti, ha avanzato la prospettiva di una contrattazione transnazionale, a livello di impresa o di settore, anche finalizzata a contemperare gli effetti distruttivi del decentramento spinto. Il fenomeno è tuttavia ancora poco diffuso, e raramente, salvo poche eccezioni, incide sulla materia retributiva. Uno slancio normativo potrebbe rinvenirsi nell’art. 156 TFUE, nella misura in cui si incoraggia la cooperazione tra gli Stati per facilitare il coordinamento delle azioni in una serie di materie, tra le quali il diritto all’associazione e il diritto alla contrattazione collettiva. Di contro, è pur vero che il fenomeno della contrattazione transnazionale registra oggi livelli anemici (V. Speziale, T. Treu), lasciando trapelare che, in tale direzione, v’è ancora molto da fare.
Durante aggiunge la proposta di uno Statuto dei diritti dei lavoratori europeo, capace di fissare a livello sovranazionale delle tutele minime, inderogabili e comuni a tutti i paesi dell’Unione Europea.
D’altra parte, le esigenze aziendali vertono sempre più su competitività e flessibilità organizzativa. In tal senso, la soluzione sta in un decentramento contrattuale virtuoso. Se declinato in misura estrema o mediante il fitto ricorso a deroghe peggiorative, invero, il fenomeno del decentramento configura un ulteriore ribasso nelle tutele e nelle retribuzioni dei lavoratori (M. Keune).
Le deroghe, nello specifico, sono più diffuse di quanto si possa pensare: il problema è che molte volte rimangono celate (V. Speziale). Si è argomentato che questo aspetto è dovuto principalmente al fatto che in Italia mancano studi sistematici attorno alla contrattazione di secondo livello, così come mancano banche dati di raccolta delle intese contrattuali, aziendali o territoriali. Ciò comporta una sorta di ignoranza sulla diffusione degli accordi di produttività e sui contenuti delle intese di secondo livello, nonché un’impossibilità nell’adozione delle buone pratiche come punto di riferimento (D. Gottardi, F. Guarriello).
Euro sì, euro no
Baccaro prova ad avanzare un’analisi controfattuale per capire se l’euro ha giovato o meno all’Italia. Per far questo, muove dalla comparazione con un Paese che ha deciso di restar fuori dall’area monetaria, e cioè il Regno Unito. Il risultato per il nostro Paese è stato un apprezzamento del cambio reale, quindi una decrescita significativa nelle esportazioni, oltre ad un’incapacità nel finanziare il debito pubblico domestico. Alla luce di queste considerazioni, si può ipotizzare un impatto negativo della moneta unica sul caso italiano. Le opzioni, secondo l’economista dell’Università di Ginevra, sono allora due. In primo luogo, l’Italia può scegliere di rimanere nell’euro, affrontando un processo di profonde riforme strutturali, mirate ad accrescere la produttività del lavoro, per cui si rendono però necessarie anche relazioni industriali cooperative. In secondo luogo, l’altra alternativa, preferibile a L. Baccaro, soprattutto qualora la crisi dovesse continuare, consisterebbe in un’uscita negoziata dalla moneta unica: diversamente, si correrebbe il rischio che la medicina delle riforme danneggi irreversibilmente la salute del nostro sistema produttivo.
Altri hanno invece sostenuto l’impraticabilità di un’uscita del nostro Paese dall’euro, rilevando piuttosto l’opportunità di un cambiamento nell’interpretazione e applicazione delle regole (L. Bordogna, T. Treu). L. Bordogna, nel merito, immagina allora per la Banca centrale europea un ruolo più espansivo, sulla scia di quello che, negli Usa, spetta alla Federal Reserve. L’autorità monetaria europea, coerentemente, potrebbe ben essere chiamata a non limitarsi a garantire la stabilità dei prezzi, muovendo piuttosto, ove necessario, anche verso la tutela dei livelli occupazionali e di tassi di inflazione adeguati, pure oltre il limite del 2%. Le politiche di austerità e contenimento del costo del lavoro, conclude il sociologo milanese, hanno invece compromesso fortemente le relazioni industriali nazionali, soprattutto con riferimento al settore pubblico.
Quale riforma per il modello contrattuale?
Altro tema, attuale quanto caldo, è stato rappresentato dal dibattito attorno alla riforma del modello contrattuale domestico. I corpi intermedi per sopravvivere devono però prima trovare un punto di incontro tra gli interessi, differenti, che sono chiamati a rappresentare, così da evitare conflitti di rappresentanza. Più nello specifico, il contratto collettivo nazionale deve mantenere la sua funzione di tutela del potere di acquisto, ma, a fronte della velocità cui viaggia l’economia odierna, deve contemplare delle possibilità di aggiustamento e ragionare su archi temporali più brevi. In caso di impercorribilità di tale strada, l’alternativa, peraltro non necessariamente irrispettosa del ruolo delle parti sociali, è il salario minimo legale (W. Cerfeda).
Altri hanno sostenuto che un punto di incontro è difficilmente raggiungibile se Confindustria dovesse continuare a puntare sulla contrattazione aziendale, a discapito della contrattazione territoriale. La contrattazione collettiva a livello di territorio, infatti, non può restare relegata in un angolo, poiché rappresenta l’unica leva a disposizione delle micro e piccole imprese italiane (L. Bellardi, F. Guarriello).
Si è altresì osservato che la legge non deve sostituire l’autonomia collettiva, dovendo piuttosto limitarsi a sostenerla. Da questo punto di vista, è al massimo opportuno un sostegno legislativo agli accordi interconfederali raggiunti tra le parti, in primo luogo con riferimento al Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014, evitando interventi autoritativi da parte del Governo (C. Damiano, U. Rehfeldt).
L’impatto del Jobs Act e (forse) del salario minimo legale sulle relazioni industriali
Sul Jobs Act a rompere il ghiaccio è stato A. Maresca. Secondo il professore dell’Università “La Sapienza” di Roma la norma non rappresenta una menomazione dell’autonomia collettiva, quanto piuttosto una possibilità di maggior dinamismo a disposizione della stessa. Il Jobs Act, infatti, consegna alle parti sociali pezzi molto rilevanti della legislazione. Altri si sono espressi in senso opposto,accusando l’esecutivo di aver gettato ancor più confusione sul sistema di relazioni industriali, oltre che di aver instaurato un gioco alla concorrenza tra imprese e lavoratori (L. Bellardi, F. Guarriello). D. Gottardi, marcando il crescente grado di disordine, si chiede se il richiamo generale alla contrattazione collettiva, indipendente dal livello cui si esplica, abbia lasciato in vita o meno la portata derogatoria dell’art. 8 della legge n. 148 del 2011.
Ad inficiare l’autonomia collettiva incorrerebbe pure l’introduzione del salario minimo legale, nella misura in cui minerebbe il ruolo del contratto collettivo nazionale. In tal senso, si rende piuttosto urgente intervenire sul tema della rappresentanza (V. Bavaro). Un salario minimo fissato per legge, inoltre, porrebbe seri problemi circa la determinazione giurisprudenziale delle retribuzioni, in forza dell’art. 36 Cost. (L. Bellardi). Contrario anche R. Pedersini, il quale, provocatoriamente, avanza una valida alternativa, e cioè un contratto collettivo intersettoriale con efficacia “erga omnes”. Più ottimista invece F. Guarriello, a patto che il salario minimo legale costituisca uno strumento di protezione salariale in grado di arginare il fenomeno dei c.d. “woorking poor” e tutelare i lavoratori (F. Guarriello).
Suggestiva, infine, la proposta di F. Durante: un salario minimo di livello europeo, finalizzato ad elidere alla fonte fenomeni di dumping salariale e concorrenza sleale tra gli attori economici che si trovano ad operare nel mercato comunitario.
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
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