Intervista a Emiliano Di Carlo (parte I) – Partecipazione e responsabilità sociale d’impresa

IMG_419re6Presentiamo l’intervista in tre parti di Danilo Terra a Emiliano Di Carlo.

Presso l’università degli studi di Roma “Tor Vergata”, Di Carlo è Ricercatore confermato in Economia Aziendale e Professore Aggregato per i corsi di “Economia dei gruppi aziendali”, “Finanza e governance dei gruppi aziendali”, “Fundamentals of business” e “Corporate governance and accountability”. Svolge attività di docenza anche presso la Luiss Business School e la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.
E’ inoltre Vicedirettore del Master in Procurement Management e membro del Laboratorio sull’Impresa Sostenibile e Responsabile (COVISION).
Le sue attuali attività di ricerca e formazione si concentrano, tra l’altro, su tematiche di corporate governance, finalismo aziendale, responsabilità sociale d’impresa, business ethics e conflitto di interessi, dilemmi etici.

La partecipazione dei lavoratori all’impresa costituisce un concetto che ha trovato nel contesto internazionale diverse forme e livelli di applicazione, sia su base volontaria che obbligatoria; quale valore assegna a tale elemento in ottica di responsabilità sociale di impresa? 

E’ da diverso tempo che mi occupo di responsabilità sociale di impresa e credo fortemente che sia un aspetto centrale nella conduzione del business. Attraverso l’attività di formazione svolta per amministrazioni pubbliche e private, sono giunto alla consapevolezza di come l’impresa, e più in generale qualsiasi tipo di azienda (quindi anche un’azienda pubblica), quando viene gestita nell’ottica di un solo stakeholder (sia esso l’azionista, il lavoratore, la collettività ecc …) si arriva, prima o poi, a forti inefficienze aziendali compromettendone la durabilità.

L’economia aziendale ci ha insegnato un concetto a mio avviso importantissimo: l’azienda deve essere gestita nel suo interesse. In circostanze di conflitto tra i fattori capitale e lavoro, l’interesse che deve prevalere non può che essere rappresentato dalla continuità aziendale. Ciò che è giusto per l’impresa è giusto anche per capitale e lavoro.

Questo è il motivo per cui ultimamente mi sono occupato di corporate governance focalizzandomi sul finalismo da dare all’impresa: qual è il fine ultimo da attribuire all’impresa?

Partendo da ciò che ci raccontano le teorie angloamericane con l’impostazione della Scuola di Chicago (in particolare Friedman) che ci hanno detto per anni che l’unico fine di impresa, e quindi del management, sarebbe dovuto esser costituito dalla esclusiva massimizzazione del valore per l’azionista.

I dissesti e gli scandali che ne sono conseguiti hanno portato alla nascita di teorie alternative, tra le quali la stakeholder theory che vede il dovere del management nella creazione di valore per tutti i portatori di interesse (dipendenti, fornitori, clienti ecc…), non solo per l’azionista. Il problema di quest’ultima teoria consiste nel fatto di porsi una pluralità di finalità con il rischio di non individuare una sintesi sostenibile.

Su questa problematica cruciale le teorie anglosassoni non sembrano offrire soluzioni condivisibili al 100%; io una risposta la vedo nell’Economia Aziendale italiana che mi ha portato a sviluppare un principio di governo basato sull’ “interesse primario dell’azienda bene comune”, Primario proprio in quanto da porre prima di qualsiasi altro interesse particolare dell’uno o dell’altro stakeholder. Vedo tale interesse al centro del governo aziendale. Tradotto, qualsiasi tipo di azienda dovrebbe avere come interesse quello di soddisfare i bisogni degli utilizzatori dei beni e/o servizi prodotti, creando altresì valore sostenibile, per se stessa e per gli stakeholders largamente intesi. Lì dove si genera competizione tra interessi particolari (immagino in primis quelli tra capitale e lavoro), tutti legittimi e giusti, l’interesse primario deve prevalere, rappresentando la migliore condizione di sopravvivenza e sviluppo dell’azienda.

L’Economia Aziendale italiana considera il profitto come quella grandezza che residua dopo aver remunerato adeguatamente tutti gli stakeholders, quindi anche l’azionista cui spetta il congruo dividendo; il giusto, non di più.

Quindi se l’azienda ha avuto un extra-reddito, quest’ultimo deve esser mantenuto e reinvestito in azienda, rafforzandola e andando a beneficio degli stakeholders che possono contare su migliori condizioni di durabilità aziendale.

In tal senso il modello di governance tedesco è quello che ha maggiormente portato la governance non esclusivamente verso l’interesse dell’azionista o del dipendente o di qualsiasi altro stakeholder (elemento che determinerebbe una gestione non durevole dell’istituto aziendale), ma verso l’interesse primario aziendale.

Ritiene che esista una correlazione positiva tra gli elevati livelli di condotta socialmente responsabile e la previsione per legge di strumenti di codeterminazione in Paesi quali Germania, Olanda, Austria e gli scandinavi Danimarca, Norvegia, Svezia e Finlandia? 

Assolutamente sì, complementarmente alla formazione della cultura delle persone. Sono Paesi dove naturalmente la cultura porta verso il bene comune, il rispetto della comunità. Te ne accorgi anche quando vedi le classifiche di percezione della corruzione: guarda caso la Danimarca è al primo posto mondiale come minima percezione, in Italia siamo al sessantanovesimo posto. A parte la percezione, esiste oggettivamente una minor ricerca dell’interesse privato, salvaguardando l’interesse della collettività.

E soggetti potenzialmente devianti da una condotta socialmente responsabile vengono formati attraverso il sistema legale; una complementarietà tra sistema legale e cultura su cui opera? 

Se andiamo a consultare alcuni scritti di economisti aziendali, quali Giovanni Ferrero, parlando negli anni 60 del modello tedesco (da egli definito fifty and fifty tra capitale e lavoro) era molto scettico per il rischio di conflitti ingestibili. Ma di fatto la realtà ci porta a una considerazione diversa, poiché la cultura tedesca non conflittuale ha giocato un ruolo fondamentale, complementarmente al sistema legale.

Di chi è la responsabilità dell’irresponsabilità dell’azienda? Questo è un interrogativo che mi son posto più volte. Ci sono degli imprenditori che sono assolutamente responsabili intrinsecamente, ma di fatto si trovano ad agire in un modo irresponsabile per salvaguardare il lavoro perché il contesto in cui operano non gli consente di operare responsabilmente. Perché accade questo? Perché evidentemente la normativa non viene fatta rispettare in alcuni Paesi e l’impresa irresponsabile, in alcuni contesti, ha più durabilità rispetto ad altre.

Se io prendo quella stessa impresa irresponsabile e la porto, ad esempio, in Danimarca, quella stessa impresa non ha durabilità, ha le ore contate.

Quando parliamo di responsabilità sociale d’impresa e di profitto sostenibile, se vogliamo anche etico, esso dipende da due motivazioni: una intrinseca e una estrinseca. Nella prima non posso che ricomprendere la motivazione dell’imprenditore (voglio comportarmi in modo responsabile, perché è giusto, elemento che ha valore per me). Le motivazioni estrinseche sono date da due fattori: regolamentazione e mercato, quindi la convenienza economica (mi devo comportare in quel modo perché conviene). Ma lì dove queste motivazioni estrinseche non si presentano, lì dove la normativa non mi protegge, il mercato spinge verso comportamenti irresponsabili, lì allora c’è poco da fare. Se sono un imprenditore etico, per me è più importante il regime etico che il profitto, ma rischio di chiudere l’azienda o portarla altrove. Questo è anche un discorso legato al settore in cui opera l’azienda e la diversa risposta che i consumatori possono dare ai comportamenti responsabili o irresponsabili. La finalità della governance la segnano anche gli stakeholders di contesto. È un discorso molto ampio e lo Stato qui può fare tanto e ad oggi non mi sembra abbia fatto quanto necessario.

Lo Stato è fondamentale e al tempo stesso è cruciale una netta separazione tra stato, economia e informazione, perché lì dove non ci sono delle muraglie cinesi tra stato, economia e informazione, non si arriva da nessuna parte. Lo Stato nel corso degli anni, piano piano è uscito dall’economia, lasciando spazio al mercato. Nel momento in cui esci però, non puoi abbandonare il mercato, ma devi garantire un contesto legale e andare a intervenire se esistono imperfezioni. Faccio un esempio: la corruzione. Lì dove c’è la corruzione, lì dove c’è qualcuno che va a manipolare i valori di bilancio, qui lo stato deve intervenire. E per questo, ad esempio, la legge sul conflitto d’interessi è importante e purtroppo a distanza di anni ancora non riusciamo ad averla.  La legge sul conflitto d’interessi dovrebbe impedire che ci sia un’interferenza dell’economia sulla politica, perché si rischia che il profitto arrivi a corrompere la politica e allora è ovvio che le norme che ti trovi sono quelle che favoriscono il profitto irresponsabile rispetto invece a quelle che dovrebbero, sì favorire il profitto, ma farlo in tutt’altro modo.

Questo concetto della non interferenza dello stato nell’economia da una parte, ma allo stesso tempo il rafforzamento del ruolo dello stato quale creatore e garante del contesto legale all’interno del quale l’economia liberamente deve operare, è la visione sintetizzata dall’Economia sociale di mercato che in Germania, a livello macroeconomico, ha trovato attuazione dal dopoguerra ad oggi? 

Certamente.

(continua)

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