Sebastiano Isaia – Sul concetto di “controrivoluzione neoliberista”

I cosiddetti economisti eterodossi, ossia di scuola keynesiana e di scuola “marxista” (ma non sempre questa distinzione ha un senso), quando parlano degli anni Ottanta, i “famigerati” anni della Thatcher e di Reagan, fanno un uso davvero abbondante del termine controrivoluzione, declinato in diversi modi: controrivoluzione neoliberista, controrivoluzione monetarista, controrivoluzione salariale e così via. Ora, a rigor di logica, la controrivoluzione presuppone una rivoluzione, o quantomeno un tentativo rivoluzionario, che per quanto è a mia conoscenza non c’è stato, almeno negli ultimi settant’anni e sicuramente non nelle metropoli del Capitalismo avanzato. Ma forse, distratto come sono, mi sono perso qualcosa d’importante.

Salvo che chi usa il termine in questione non intenda riferirsi allo strepitoso sviluppo capitalistico innescato dalla Seconda guerra mondiale (un vero e proprio toccasana per un capitalismo a lungo rantolante), che tra alti e bassi si è concluso alla fine degli anni Sessanta, lasciando il posto nel decennio successivo a una crisi economica internazionale che in Occidente e in Giappone ha inaugurato la nuova epoca dell’accumulazione che dura tuttora, sempre tra alti e bassi – e a volte, in non pochi Paesi (vedi ad esempio il Giappone degli ultimi 25 anni), tra bassi e bassissimi.

I progressisti (compresi quelli che un tempo si autodefinivano “comunisti”) hanno mitizzato la forza della classe operaia nei «trent’anni gloriosi» seguiti al Secondo macello imperialistico chiamato «guerra di liberazione» dai vincitori. E ciò è dimostrato dal fatto che essa non è stata “classe” nell’accezione marxiana del concetto, cioè a dire soggettività politico-sociale, soggetto provvisto di autonomia politica e organizzativa, essendo i lavoratori anche allora sotto l’influenza della politica e dell’ideologia dominante attraverso la mediazione dei partiti cosiddetti operai (in Italia il Pci)   e dei sindacati. La forza politica e ideologica di quei partiti e di quei sindacati attestava l’impotenza del proletariato e la potenza delle classi dominanti.

In realtà, un dominio capitalistico forte come non mai, finchè ha potuto ha cercato di gestire le contraddizioni sociali soprattutto attraverso la concessione di briciole sia sul terreno salariale, sia su quello del welfare. Perché beninteso di briciole comunque si è trattato, soprattutto in termini relativi, ossia di rapporto salario/produttività, salario/profitto, salario/ricchezza sociale. Come scriveva Marx, «Se con il rapido aumento del capitale aumentano le entrate dell’operaio, nello stesso tempo però si approfondisce l’abisso sociale che separa l’operaio dal capitalista, aumenta il potere del capitale sul lavoro, la dipendenza del lavoro dal capitale. Dire che l’operaio ha interesse al rapido aumento del capitale significa soltanto che, quanto più rapidamente l’operaio accresce la ricchezza altrui, tanto più grosse sono le briciole che gli sono riservate» (Lavoro salariato e capitale). È vero che oggi i lavoratori e i disoccupati guardano con nostalgia alle grasse briciole di un tempo (peraltro cadute soprattutto sulle grandi imprese pubbliche, parapubbliche e private, feudo incontrastato della «triplice sindacale»). Ma questo attesta solo la natura disumana, e sempre più disumana, della vigente società, e non legittima in alcun modo la miserabile apologia dei progressisti per i presunti «trent’anni gloriosi», che peraltro hanno posto le condizioni per la successiva “controrivoluzione”.

Quegli anni furono gloriosi non certo per le classi subalterne, ma per il Capitale e per il suo personale politico e sindacale, soprattutto per quello in guisa “riformista”, che allora poté giocare un ruolo centrale nella società occidentale, soprattutto in quella italiana, relativamente arretrata in confronto alle altre e quindi bisognosa di “riforme modernizzatrici” su diversi fronti: mercato del lavoro, legislazione sul lavoro, diritto di famiglia, “diritti civili”, sistema pensionistico, ecc.

Quando la coperta dell’accumulazione si è fatta corta a causa di saggi del profitto sempre più anemici; quando la competizione capitalistica mondiale si è fatta più dura e stringente (soprattutto con l’ingresso nell’agone degli ex Paesi sottosviluppati: Cina, India, ecc.); quando il boom economico postbellico esaurì definitivamente la sua “spinta propulsiva”, mettendo in tensione il vecchio modello di “Stato sociale” (come diceva Olof Palme, la pecora borghese va ingrassata e poi tosata), allora lo spazio della “mediazione” e del “compromesso” si è improvvisamente ristretto, e “autunno caldo” dopo “autunno caldo”, corteo operaio dopo corteo operaio, i lavoratori hanno iniziato a percorrere quella sorta di viale del tramonto che sappiamo.

In realtà, i lavoratori non hanno mai visto sorgere il metaforico sole, tanto meno quello dell’Avvenir…*

Ecco perché sorrido malignamente quando il raffinato Fausto Bertinotti continua malinconicamente a riproporre il modello conflittuale-contrattuale degli anni Settanta (vedi la Fiat di Mirafiori), contrapponendolo alla Mitbestimmung (codecisione) tedesca oggi caldeggiata per l’Italia anche dal suo amico Enrico Grazzini, teorico della “Banca Etica” (sic!) e autore del Manifesto per la democrazia economica (Castelvecchi, 2014). Il buon Fausto non smette di ricordarci che quando in Italia e nel mondo la classe operaia era forte, e forte era il «conflitto di classe», le cose andavano bene anche per il Capitale, almeno per quello “reale” basato sul lavoro produttivo delle fabbriche. Poi i rapporti di forza si sono rovesciati, «il Capitale ha vinto» (ecco arrivata, dulcis in fundo, la «controrivoluzione») e l’economia è stata gettata nel baratro della speculazione finanziaria. Non fanno tenerezza tutti questi amici della classe operaia che vogliono salvare il Capitalismo da se stesso?

* «Tra l’altro, a onore del vero e a scorno della mitologia operaista e pansindacalista, c’è da dire che tutto il movimento rivendicativo degli anni Sessanta comportò lo spostamento di ricchezza sociale a favore dei salariati quantificabile nell’ordine dell’uno per cento. Quando Berlinguer teorizzò la politica della moderazione sindacale, praticata dalla trimurti sindacale già da anni, i salari operai languivano sotto la sferza dell’inflazione, balsamo su profitti andati in sofferenza. «Il problema della dinamica del costo del lavoro deve essere considerato e affrontato, ma in un quadro di valutazioni più vasto e rispondente alla realtà» (E. Berlinguer, Austerità. Occasione per trasformare l’Italia). Egli non negò – anzi! – l’imperativo categorico dei sacrifici, ma disse che a farli non dovevano essere solo i lavoratori: e anche questa è musica dei nostri pessimi giorni» (da Berlinguer, il tristo profeta dei sacrifici).

Come mostrò Francesco Farina ne L’accumulazione in Italia 1959-1972 (De Donato, 1976), un «aspetto rilevante dell’accumulazione capitalistica in Italia [nel secondo dopoguerra] è la mancanza di un processo continuo ed autonomo  di innovazioni tecnologiche, dal momento che la maggior parte dei beni capitali viene importata o imitata dall’estero. Il progresso tecnico è perciò introdotto in prevalenza attraverso riorganizzazioni produttive dirette ad aumentare la creazione di plusvalore mediante la pura intensificazione del lavoro, e solo limitatamente si presenta incorporato in nuovi impianti tecnologicamente più avanzati, in grado di accrescere la produttività sociale del lavoro» (p. 12). Questo “modello” di accumulazione estensiva (espansione territoriale della base tecnica data) e non intensiva (introduzione di tecnologia labour saving), che aveva la sua ragion d’essere nella struttura capitalistica del Paese e nella sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro postbellica, e che entrerà in crisi già nella seconda metà degli anni Sessanta, realizzò quella relativa forza contrattuale della forza-lavoro che il capitale italiano cercherà di intaccare in tutti i modi all’indomani dell’autunno caldo del ’69.

(12.06.2014)

Tratto dal sito sebastianoisaia.wordpress.com

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