Dalle utopie ai fatti
Sessant’anni fa, il 27 febbraio 1960, su un treno diretto in Svizzera, moriva, all’età di 59 anni, Adriano Olivetti. Due anni e mezzo prima della morte di Enrico Mattei avvenuta il 27 ottobre 1962 all’età di 56 anni , a causa di un attentato all’aereo su cui viaggiava partito da Catania e diretto a Milano. Per ricordarlo, riprendiamo l’articolo pubblicato sulla Staffetta del 2 novembre 2012, autore Roberto Macrì, che traccia un parallelo molto significativo tra queste due figure di imprenditori che hanno avuto un ruolo determinante nella ripresa dell’economia italiana dopo i traumi delle seconda guerra mondiale.
Coincidenze. Negli stessi giorni della commemorazione dei 50 anni dalla morte di Mattei (v. Speciale Staffetta 13/7/12), così bene ricordata su queste pagine, uno splendido documentario su Adriano Olivetti all’Istituto Italiano di Cultura di Amburgo (www.iccamburgo.esteri.it) animava un dibattito sulle vicende dell’industria italiana. La soddisfazione di vedere un pubblico tedesco sorprendentemente attento all’eccezionale storia industriale e sociale di Adriano Olivetti è servita a ripensare ancora una volta al parallelo con Enrico Mattei: due capitani di industria così diversi per origini, formazione, carattere e stile di comando, ma accomunati dalla concezione dell’impresa nella società, dalla strategia organizzativa e, purtroppo, dalla loro fine improvvisa. E uniti anche nell‘oblio delle loro gesta di larga parte dell’opinione pubblica e quel che è peggio tra i Reggitori della Cosa Pubblica e nella stessa classe dei loro “Colleghi Imprenditori”. Come nella terra omerica dei Lotofagi, l’Italia dimentica spesso i suoi figli migliori. Al di là del ristretto numero degli eredi e degli studiosi la loro Lezione è stata dimenticata. Solo nostalgia di un tempo migliore? No. Rammarico invece per l’ignoranza di due esempi industriali ancora oggi di grande utilità per trovare una via d’uscita alla grave crisi attuale e provare a ricomporre in un unico disegno Economia e Società.
Plutarco. Azzardare un confronto con l’opera di Plutarco sarebbe folle presunzione di chi scrive, ma non vi è titolo migliore di questo per onorare le Vite Parallele di Olivetti e Mattei. E’ non è presunzione pensare che un redivivo Plutarco li avrebbe raccontati Eroi delle loro straordinarie imprese. Ma cosa raccontare ancora di loro? Il debito di onore verso Adriano ed Enrico riempie già le biblioteche, le mostre, il cinema, le raccolte dei giornali e meritevoli Fondazioni ne tengono viva la memoria. Ogni passo della loro vita è negli archivi per chi ha interesse e voglia di leggerli. Meglio il saggio consiglio di Carlevaro ”oggi è il tempo delle riflessioni, non quello delle riesumazioni di cose dette e ridette”. E’ qui la ragione di questo articolo: provare a trarre dalle loro vite il senso profondo delle loro scelte per vederne la lezione ai tempi d’oggi, quando l’Italia nel mezzo di una tempesta epocale dell’economia mondiale sembra al capolinea di un sistema politico e di un modello economico senza idee e senza bussola.
La Città del Sole. Nelle parole di Olivetti “noi sogniamo una comunità libera ove la dimora dell’uomo non sia in conflitto né con la natura né con la bellezza” e di Mattei “i tesori non sono i quintali di monete d’oro ma le risorse che possono essere messe a disposizione del lavoro umano” si rivelano le loro Utopie. Ma gli straordinari risultati nel breve tempo delle loro Vite dimostrano agli scettici che Utopia non è parola velleitaria ma nella mani di chi sa e vuole può muovere il mondo. Al centro della loro Città del Sole c’era una visione del lavoro industriale come promozione dei talenti e della dignità umana, come lievito dello sviluppo economico e come pars costruens dell’intero ambiente in cui l’azienda opera; l’impresa parte di quelle Comunità inventate da Adriano Olivetti come il nucleo della sua società ideale. La collaborazione tra il Lavoro e le Comunità sono immaginati come il perno e il cardine del corpo sociale in una sorta di nuovo Umanesimo. Un disegno armonico certamente molto ambizioso ma che trovava ragione nei principi sociali ed economici della Costituzione del 1947, appena prima che cominciasse l’avventura che segnò le loro Vite.
Il lavoro. A questo ideale di società nuova serviva una concezione del lavoro molto severa. Non deve ingannare il clima organizzativo aperto alla partecipazione e l’inconsueto stile di comando improntato alla informalità e aperto alla cultura che rendeva speciale l’atmosfera all’Eni e all’Olivetti. Nella pratica manageriale di Olivetti e di Mattei all’ideale del lavoro fonte di progresso sociale s’accompagnava la precisa responsabilità di ogni lavoratore di dare il meglio nel suo mestiere e di fare squadra; dall’operaio al dirigente. Era questo il segreto della superiore produttività e creatività nella Fabbrica di Adriano e nel Gruppo di Enrico a confronto con il resto di gran parte della grande industria italiana che invece funzionava secondo uno schema gerarchico accentrato e uno stile di comando di rigida disciplina e di obbedienza militaresca. Non è così nella migliore tradizione artigiana dove motivazione, lavoro di squadra, responsabilità e intraprendenza sono ancora caratteristiche vive, forse eredità della Bottega Rinascimentale. Piace pensare che Primo Levi nel ‘78, quando fece protagonista del suo libro “La chiave a stella” mitico operaio Faussone, avesse a mente non solo le virtù tecniche delle piccole officine ma anche il modo di lavorare di Olivetti e di Mattei che di quelle qualità fecero tesoro. Come loro Faussone guadagna il mondo con la perizia del mestiere, non ha bisogno del passaporto per essere riconosciuto; ovunque vada, quel che conta è la chiave a stella che nelle sue mani abili funziona come il violino in un’orchestra. E non per caso due anni dopo un altro Enrico, Gandolfi a capo della Saipem, fa dono del libro a tutti i suoi tecnici e invita Primo Levi a visitare l’ultimo gioiello tecnologico della società: la nave-piattaforma Castoro 6 in opera al largo della Sicilia.
Comunità. E’ qui il segno più forte di cambiamento del tradizionale modello di impresa. Eni ed Olivetti concepiscono la loro azione imprenditoriale come parte e servizio delle Comunità in cui operano.
Per Adriano, uomo colto, cosmopolita e già erede di un’industria affermata, Ivrea diventa un laboratorio dove l’azienda e lui stesso in prima persona giocano un ruolo in tutti i campi della vita sociale: la programmazione territoriale, l’organizzazione urbanistica, la cura della natura, la promozione delle attività culturali e dei servizi sociali coltivando un dialogo stretto con Istituzioni, politica, sindacati e cittadini. Una semina che crea nell’ambiente del Canavese un legame e uno scambio con la Fabbrica che ne trae forza e sostegno per lo sviluppo dei propri progetti.
Per Enrico, uomo di provincia, autodidatta e self made man, il carattere sociale dell’impresa si esprime prima di tutto nella rottura dei vincoli nazionali e internazionali che assoggettano l’Italia in campo energetico. Aprire alla concorrenza il mercato interno, trovare il gas nella Val Padana e riuscire a rifornirsi direttamente dai paesi produttori ha un effetto di stimolo formidabile sullo sviluppo economico, dando innesco al miracolo italiano. Ma anche l’Eni di Mattei ha cura delle comunità dove lavora creando in ognuna modelli urbanistici e servizi sociali avanzati e coinvolgendo la società intorno. E ha altrettanta cura dei rapporti a livello nazionale stabilendo una stretta collaborazione con Università, centri di ricerca,enti culturali e creando così una maggiore consapevolezza delle reciproche ragioni.
Ambedue danno grande spazio alla Cultura reclutando intellettuali di varia specializzazione. Entrano a decine nei ranghi di Eni ed Olivetti pittori poeti, scrittori, architetti, urbanisti, sociologi, registi, filosofi. Apparentemente estranei alle competenze tecniche ed economiche della gestione operativa, prendono in mano la direzione di tutte quelle attività extra produttive che sono altrettanto importanti per il funzionamento di un’azienda: la gestione del personale, il marketing, la pubblicità, la produzione editoriale, l’organizzazione delle Fiere e delle Mostre, la progettazione urbanistica e architettonica, l’organizzazione, le indagini sociologiche, la programmazione territoriale.
E se all’Olivetti tra i tanti si ricorda a capo del Personale lo scrittore Volponi, all’Eni tra i tanti si ricorda il poeta Bertolucci alla guida della prima rivista “Il Gatto Selvatico”.
In questo modo Adriano ed Enrico sono pionieri in Italia di una comunicazione aziendale centrata sulla relazione tra l’attività industriale e lo sviluppo sociale. Un modo efficace di promuovere una cultura industriale da sempre debole nel nostro Paese tant’è che ancora larga parte della pubblica opinione e della classe dirigente associa la parola industria al male assoluto.
E per ultimo è molto significativo il ruolo che in ambedue le aziende hanno avuto tanti giovani economisti di talento che messi alla prova della strategia e della gestione aziendale hanno fatto scuola nel campo dell’economia aziendale e industriale innovando l’accademia e assumendo ruoli importanti nella Pubblica Amministrazione e nella ricerca; un’altra semina fertile per l’intera nostra società.
La fabbrica. Molte persone hanno il dono della creatività, molte di loro coltivano l’Utopia ma sono pochi quelli capaci di mettere i loro sogni con i piedi per terra. Olivetti e Mattei questa qualità l’avevano al massimo grado. E sapevano ambedue che la genialità dell’intuizione restava solo un’idea senza un Progetto ed una Strategia. Cioè senza un’adeguata organizzazione. Era proverbiale la loro attenzione ai piani operativi e alla scelta dei dirigenti più adatti. Avevano un approccio molto sistematico nella conduzione degli affari che bilanciava la loro fervida elaborazione di idee e di nuove iniziative. Davano molta importanza alle tecniche direzionali e alle strategie organizzative. E altrettanta alla selezione, alla formazione e alla motivazione del personale. E ritenevano tutti e due che il mondo fosse lo spazio della loro strategia ma che in Italia restasse la radice e la forza vitale delle loro aziende. L’innovazione e la qualità erano i presupposti indispensabili delle loro ambizioni; ne fanno fede i loro grandi centri di ricerca e i primati tecnologici che hanno ottenuto. L’Olivetti nei calcolatori e nell’informatica arrivò per prima al mondo; l’Eni in campo minerario e nelle tecnologie delle reti gas con tenacia ha raggiunto l’eccellenza.
E attorno a loro crebbe un indotto di medie aziende specializzate che dettero vita a veri e propri distretti industriali. Non per caso l’industria piemontese è forte nella elettromeccanica e leader nella robotica. Non per caso l’industria di Piacenza ha il proprio punto di forza nelle tecnologie per la ricerca mineraria e la leadership della Saipem nel lavoro in mare ha indotto lo sviluppo di fornitori di eccellente qualità.
Tutti e due capi assoluti e duri nella gestione del Potere ma mai soli al comando; apprezzavano il gioco di squadra, lo scambio di idee, la partecipazione. Senza guardare troppo alle gerarchie formali ma badando agli obiettivi. Governavano dando ampia delega, ma pretendevano altrettanta responsabilità.
La Fabbrica per loro era assieme misura di efficienza e fulcro materiale delle loro Utopie sociali.
La morte improvvisa. A metà delle loro prodigiose imprese e non ancora sessantenni morirono improvvisamente: prima Adriano nel ‘60 da solo in treno, poi Enrico nel ‘62 in un incidente aereo. Una fine tragica come fratelli di uno stesso destino epico. Non si frequentarono e non collaborarono, forse per la distanza dei caratteri e dei loro mondi, ma la coincidenza dei loro destini colpisce. E uscirono di scena alla vigilia di quel miracolo economico che avevano contribuito a costruire e che senza di loro prese subito una brutta piega. Forse con la loro partecipazione lo sviluppo impetuoso di quegli anni avrebbe preso una strada più virtuosa. Quella della programmazione tentata e fallita dal primo centrosinistra per l’opposizione di un mondo imprenditoriale, sindacale e politico che non volle o non seppe vedere i rischi e le opportunità dei tempi nuovi.
Per legittima difesa. A distanza di tanti anni appare veramente ingrato il commento di chi ora giudica l’opera incompiuta di Olivetti e Mattei con particolare severità. A paragone degli scarsi mezzi di cui hanno potuto disporre e degli anni difficili in cui si è svolta la loro breve parabola si può solo restare ammirati dai risultati. E sarà un grande progresso per l’Italia quando impareremo a valutare le azioni dai fatti e dai risultati senza ricorrere agli aneddoti e ai preconcetti ideologici.
Nella vicenda di Adriano Olivetti e di Enrico Mattei il fatto che più colpisce è la scomparsa del muro ideologico tra Pubblico e Privato. Mattei imprenditore pubblico non era certo meno efficiente e intraprendente degli imprenditori privati; anzi, molto di più della media degli standard di allora e di oggi. Olivetti imprenditore privato badò alla responsabilità sociale quanto al profitto con lo stesso impegno “la fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti… la cultura qui ha molto valore… occorre superare le divisioni tra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura” scriveva. Non sono questi gli esempi concreti di una visione economica dove pubblico e privato concorrono assieme all’efficienza e alla socialità? Come negli esempi migliori della Germania e delle società scandinave dove la responsabilità sociale dell’impresa e l’efficienza del settore pubblico sono concetti acquisiti e praticati.
Quanto ai risultati basterà ricordare agli accigliosi critici che nei 39 anni dell’Ente Nazionale Idrocarburi (prima che diventasse Spa nel ‘92 con l’avvio delle privatizzazioni) ricevette dalla Stato 16 mila miliardi di lire come Fondo di Dotazione restituendoli tutti in imposte e registrando solo due anni in perdita. Chi ha fatto meglio in Italia? in attività così rischiose? e in così breve arco di tempo? L’Eni di Mattei durò solo nove anni. Forse gli imprenditori privati che nella privatizzazione delle grandi concessioni pubbliche hanno trovato comode rendite? Sfuggendo ogni occasione di rischio? Anche in quei casi, come la Parmalat, dove sembrava logico un impegno dei grandi imprenditori italiani dell’agroalimentare.
Ma come è andata a finire la storia di Adriano ed Enrico?
I fatti. L’Olivetti purtroppo per la debolezza dell’azionariato familiare, per la stretta delle banche e l’ostilità del mondo imprenditoriale e politico fu costretta a cedere il controllo e a vedere liquidata quella tecnologia elettronica e informatica basilare per lo sviluppo dei calcolatori e del personal computer nei quali aveva il primato mondiale. L’agonia si consumò per molti anni ancora ma ormai quella storia era finita. Ci voleva Steve Jobs per riconoscere il genio imprenditoriale di Adriano e comprendere l’enorme danno che ne venne al Paese. Pazienza per la cecità della classe politica che di industria poco si intende, oggi meno di allora purtroppo, ma come perdonare i grandi imprenditori italiani? Non è forse il loro mestiere cogliere il nuovo e intraprendere? Colse al volo l’occasione General Electric che a prezzi di saldo comprò la tecnologia Olivetti e ne fece ottimo uso. La stessa General Electric che molti anni dopo fece un altro ottimo affare comprando la Nuovo Pignone (invenzione imprenditoriale di Mattei che seppe trarla dal fallimento e farne un gioiello tecnologico al pari di Saipem) inopinatamente ceduta dall’Eni seconda maniera. Solo una coincidenza?
All’Eni invece andò meglio; alla morte di Mattei anche Eni era appesantita da un forte indebitamento a causa degli investimenti ancora non a reddito. Ma trovò sufficiente sostegno nelle banche e nella finanza pubblica grazie ad un contesto politico più favorevole. Così sopravvisse al colpo. Valse molto anche la solidità della struttura organizzativa, la diversificazione del rischio e la forza della squadra matteiana che si caricò sulle spalle l’eredità e non smarrì la strada. Ma l’Eni di oggi è quello di allora? Non più; per tanti e complessi aspetti che qui non hanno spazio. Ma dell’Eni di Mattei però la nuova Spa privata al 70% ha conservato l’impianto organizzativo, l’ancoraggio strategico all’attività mineraria e la forza del management operativo che spiegano gli utili e la crescita continua di investimenti e quote di mercato dei secondi 20 anni.
Ci si chieda dunque quanto sarebbe stata più povera l’Italia senza l’energia di Enrico Mattei? Quanto sarebbe stata più ricca con l’informatica di Adriano Olivetti?
Le idee. E che fine hanno fatto quelle idee organizzative e quelle visioni sociali che ispirarono la Città del Sole dei nostri Eroi? In questo senso il bilancio è assai peggiore.
Nella pratica che oggi prevale nella grande imprenditoria di quello spirito non v’è traccia.
Il Lavoro e le Comunità al centro delle strategie aziendali sono ormai merce avariata nella grande industria e rara in qualche piccola e media azienda ancora ispirate dall’ideale dell’Etica del lavoro e dell’Estetica sociale; due categorie filosofiche che hanno sostanziato la strategia di Mattei ed Olivetti ma che nel linguaggio degli affari di oggi appaiono ridicole. Gli uomini del fare non hanno tempo da perdere con il pensiero.
La Fabbrica ha ceduto il posto alla Finanza. Su scala mondiale il mercato finanziario muove un giro di affari multiplo rispetto alla produzione di merci. Anche in Italia questa logica ha preso piede indebolendo il punto di forza della nostra economia: la manifattura. All’interno di molte aziende la logica e gli interessi finanziari prevalgono ormai sulla logica e le strategie operative. Contano assai meno il duro lavoro, le strategie, la gestione e assai di più la scommessa di breve termine. Tempi e logiche opposte. Non più la Finanza al servizio della Fabbrica ma viceversa. Sparisce dalle strategie aziendali l’ancoraggio al territorio e per reazione rinasce un campanilismo senza prospettive dimenticando che il mondo è lo scenario del nostro futuro; lo sapeva già Marco Polo prima di Mattei e di Olivetti. La proiezione internazionale segue le opportunità finanziarie e i costi bassi del lavoro senza strategie di lungo termine: mordi e fuggi. Le competenze di mestiere vengono appaltate perdendo il controllo e la capacità di innovazione. La qualità non è più è al primo posto. La Fabbrica così ha perduto la centralità che aveva nell’Italia del dopoguerra.
Il concetto di responsabilità sociale dell’impresa è diventata quindi una parola vuota, buona solo come slogan di una comunicazione aziendale basata sulla suggestione senza fatti.
Ma il guaio è che anche nel pensiero politico e nel pensiero economico l’esperienza e i concetti innovatori di Mattei e Olivetti sono spariti. Quel che conta è guadagnare il consenso politico ad ogni costo e fare girare modelli econometrici che descrivono e prevedono l’economia. Come se il rischio più grande non fosse oggi la pericolosa instabilità sociale originata dalla precarietà del lavoro e del risparmio. Non è forse l’economia prima di tutto una scienza sociale? Non è forse la politica prima di tutto il governo della polis?
Il bilancio è amaro dunque: la vecchia Italia l’ha avuta vinta anche stavolta. Si sbaglia però a dire come molti cinici o pessimisti che l’Italia non è capace di progresso, di innovazione, di riforme. Nella nostra storia sono molti gli esempi di cose fatte bene, di riforme avanzate e di primati in tutti i campi. Si ha ragione invece a dire che l’Italia è doppia: una costruisce cose egregie; l’altra prima le avversa e poi una volta fatte se ne appropria e le distrugge.
Morale della Storia. Tutto è perduto dunque? No. Nella vita sociale c’è sempre una possibilità di riscatto.
E se la storia non è soltanto un deposito di robe vecchie ci può aiutare Plutarco “guardando nella storia come in uno specchio… non esiste modo migliore e più piacevole di migliorare i propri costumi”. Perciò è importante ricordare che abbiamo avuto tempi migliori: per ritrovarne il segreto.
(di Roberto Macrì, www.staffettaonline.com, 21.02.2020)
Bellissimo articolo. Ho recentemente relazionato in un Ted su come uscire dalla enorme crisi attuale, citando in batteria Pasolini, Mattei e l’indipendenza energetica dell’Italia ( cui oggi bisogna puntare) e l’opera di Adriano Olivetti, come prospettiva per ripartire e rilanciare la nostra società. Vedete, possono.uccidere le persone. Possono anche tentare di oscuranti. Ma il bene ritrova e riconosce sempre il bene, lo va a cercare anche inconsapevolmente. Il bene non si perde mai.
Sono un’urbanista specializzata in eco-sostenibilità. ARCH. G. Tiziana Gallo