Focus FCA-Psa – Fabio Di Gioia “Non lasciamoci folgorare sulla strada del modello partecipativo”

Ho letto con la dovuta attenzione il contributo di Volker Telljohann ed il relativo commento dell’ Avv. Giorgio Verrecchia. In qualità di Rappresentante dei Lavoratori e di membro del Comitato Aziendale Europeo del Gruppo FCA (almeno fino a quando tale Comitato è esistito, dal momento che l’accordo è scaduto senza rinnovo) gradirei condividere alcune osservazioni.

Intanto ringrazio Volker Telljohann che ha il grande pregio (raro, oggigiorno) di fornire un’informazione chiara e precisa attenendosi strettamente al merito. Mi sento comunque di condividere quello che pare essere l’unico commento dell’estensore: se oggi stiamo discutendo del fatto che FCA “apra” ad una partecipazione dei lavoratori ad un livello finora mai raggiunto, questo non è certo per una folgorazione sulla strada del modello partecipativo, ma per la necessità di applicare la legislazione europea che, come correttamente sottolinea l’Avv. Verrecchia, pare portare frutti che vanno addirittura al di là degli intenti originari dei legislatori.

In secondo luogo non posso non registrare con rammarico che i mezzi di informazione (e forse non soltanto loro) hanno attribuito al fatto di poter portare rappresentanti dei lavoratori in organismi finora inaccessibili un’importanza eccessiva rispetto ad altri aspetti della fusione che forse avrebbero meritato maggior attenzione ed un più puntuale esercizio di analisi critica. A costo di ferire qualcuno vorrei essere molto chiaro: se attribuiamo un potere salvifico all’applicazione del modello partecipativo (o, se preferite, cogestionale) accontentandoci del semplice e formale “ingresso nella stanza dei bottoni”, saremmo degli stolti. In questo senso l’esperienza del Comitato Aziendale Europeo del gruppo FCA (massima espressione, fino a ieri, di un modello partecipativo transnazionale) ci dovrebbe insegnare molto dimostrandoci nei fatti che si può essere ottemperanti a leggi e regolamenti creando gli strumenti previsti dalla legislazione, ma, nel contempo, lavorare scientemente per depotenziare lo strumento medesimo.

Per l’esperienza CAE FCA non voglio indagare qui ed ora quanta parte hanno avuto alcune organizzazioni sindacali (o para-sindacali) nel supportare l’azienda in questo lavoro di depotenziamento perchè, vuoi per il mio carattere, vuoi per le necessità dettate dai tempi, preferisco guardare avanti per trovare ciò che potrebbe tornare ad unirci piuttosto che soffermarmi sui temi che ci hanno diviso e che continuano a dividerci.Il CAE FCA ci insegna però che dovremmo porre alla base di qualsiasi riflessione sull’applicazione del modello partecipativo la difficoltà di rappresentare a terzi la complessità del mondo sindacale italiano (ed in particolare di quello FCA, vero e proprio caso di studio in materia di bizantinismi).

È molto arduo pensare ad una efficace suddivisione di rappresentanze anche soltanto, ad esempio, per Paese quando non si riesce a dirimere la questione del “peso” delle rappresentanze sindacali di un singolo Paese. La soddisfazione di tutti crea organismi complessi e scarsamente reattivi/proattivi, con gran soddisfazione dell’azienda. Questo potrebbe consegnarci un postulato: organismi di rappresentanza transnazionali e situati nella parte elevata della piramide organizzativa non possono essere funzionali se non si intraprendono passi verso una rinuncia (ancorchè parziale) ad una malintesa sovranità sindacale nazionale. Traduco: devo far sedere “là ove si puote” persone competenti non scelte in base ad appartenenze sindacali o (peggio) di nazionalità.Comprendete bene che nel caso di accesso di rappresentanti dei lavoratori nei “board” (quindi quantità estremamente esigue di componenti) quanto sopra è fondamentale, al di là dei requisiti che il “board” stesso potrebbe richiedere ai suoi membri (tema, questo, sottolineato dai rappresentanti FCA nel corso dell’unico incontro ufficiale avuto fino ad oggi con le organizzazioni sindacali, il 20 dicembre scorso a Torino).

Infine, per onestà intellettuale, occorre anche ribadire che in questa fase del capitalismo e delle dinamiche di economia aziendale i “board” sono sempre meno “stanze dei bottoni” e sono sempre più luoghi di ratifica di decisioni prese da altri soggetti per i quali il concetto di rappresentanza dei lavoratori è totalmente assente (probabilmente per la corrispondente assenza del fattore “lavoro” in senso stretto). Al netto di sterili complottismi, penso sia chiaro che in un “board” di un azienda un rappresentante di un fondo (o, per stare a FCAPSA, della BPI) sia infinitamente più “influente” di altri (detto sommessamente agli appassionati del capitalismo familiare: anche della famiglia).L’atteggiamento sindacale di fronte alle opportunità derivanti da un innalzato livello partecipativo deve comunque essere, a mio parere, di apertura. Cerchiamo di verificare se esistono opportunità e, se esistono, attrezziamoci per coglierle. Utilizziamo questo percorso per riqualificare il modello partecipativo in sede locale.

In FCA (ma, temo, anche altrove) l’azienda ha concretizzato il paradosso linguistico di far diventare transitivo il verbo “partecipare” nel senso che l’azienda “ci rende partecipi” delle decisioni che ha preso: potrebbe essere il momento opportuno per dire che questo non è più sufficiente, oltre ad essere difforme allo spirito della legislazione europea che si incarna nella partecipazione al “board”. Soprattutto cerchiamo di capire quanto siamo attrezzati e se occorra, in qualche modo, ripensarci sindacalmente: quale “precipitato” spendibile ci aspettiamo di avere per i lavoratori da un ridefinito “modello partecipativo”, a qualsiasi livello? Quando il “piano industriale” di un’azienda (feticcio a cui siamo tuttora morbosamente legati) diventa un mero strumento per la realizzazione degli obiettivi finanziari così come sono stati declinati agli “shareholders”, quale azione sindacale possiamo intraprendere a salvaguardia di lavoratrici e lavoratori e quali informazioni ci occorrono per attuarla? Come salvaguardare il lavoro e le persone dall’intreccio diabolico tra i sovranismi politici nascenti che fingono di non vedere l’interdipendenza economica esistente tra le nazioni? Come si pone rispetto alla “guerra dei dazi” un movimento sindacale che vuole essere transnazionale? Come ci collochiamo nel nostro ruolo di rappresentanti di donne e uomini che iniziano ad essere stufi di essere compressi unicamente nella classificazione bifronte “consumatori/produttori”? Quale atteggiamento concreto di fronte all’emergenza ambientale?

Oggi è prematuro dare giudizi sulla nostra adeguatezza (od inadeguatezza) rispetto a questi scenari, ma dovremo farlo e credo che una buona base di partenza per evitare di avvitarci in tardive e sterili autocritiche sia di irrobustire le buone pratiche che abbiamo: lo sviluppo (e la pratica costante) di una rete sindacale transnazionale orizzontale, la quale possa incontrarsi senza dover dipendere dalle convocazioni degli organismi formali. In questo senso esiste l’ostacolo delle lingue, ma, per converso, esiste anche una disponibilità di mezzi di comunicazione inimmaginabile fino a trent’anni or sono. Ragioniamo su come sfruttarli. Al tempo stesso, insistiamo sulla formazione: delegate e delegati sempre più qualificati in materia di fondamentali dell’economia; focalizzazioni sulla qualità degli accordi sindacali che vengono stipulati per l’istituzione di organi partecipativi ponendo la giusta enfasi su quelli che dovrebbero essere i punti qualificanti da presidiare con maggiore cura; valorizzazione degli organi partecipativi esistenti offrendo una migliore informazione anche a coloro che non li frequentano e che spesso non ne comprendono l’utilità ritenendoli (a volte non a torto) autoreferenziali. Il resto lo scopriremo, a patto che l’ingresso in un consiglio di amministrazione non ci abbagli fino al punto di renderci ciechi rispetto a ciò che ci circonda ed incapaci di vedere le necessità immediate di coloro che dovremmo rappresentare.

(opencorporationblog)

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