«Sono una casta. Privilegiati che difendono altri privilegiati. Tutelano i fannulloni. Fanno i sindacalisti per non lavorare. Difendono solo le pensioni di anzianità e lasciano i giovani senza la prospettiva di una pensione dignitosa. Rappresentano i garantiti, disinteressandosi dei milioni di precari o di chi il lavoro non ce l’ha. Fanno scioperi che creano disagi più ai cittadini che alle controparti, di cui sono complici. Sono troppo legati alla politica. I bilanci e il tesseramento non sono trasparenti. Sono una cosa vecchia, inutile e dannosa, un retaggio del secolo scorso, un ostacolo alla crescita del Paese. Il sindacato in Italia è stato generalmente un fattore di ritardo che ha diminuito l’efficienza e la competitività complessiva del Paese».
Questi sono solo alcuni dei luoghi comuni e dei pensieri diffusi oggi in Italia sui sindacalisti. Può capitare di ascoltarli dovunque, al bar come sui media. È stato addirittura scritto un libro, dal titolo emblematico L’altra casta, che raccoglie molte di queste idee. Ma le cose stanno proprio così? Le malefatte compiute sono davvero così gravi e numerose da giustificare l’attacco al sindacato come sport nazionale? I sindacalisti hanno veramente “rovinato l’Italia”, cosa di cui spesso sono accusati? Qualsiasi luogo comune, che consiste in fondo in una riduzione macchiettistica della realtà, si basa su episodi – anche limitati – che hanno determinato nell’opinione pubblica una comune percezione.
Lo stereotipo nasce attraverso la caricatura, l’esagerazione di certe caratteristiche, percepite dal sentire comune in rapporto a una persona o a un gruppo di persone, in questo caso alle organizzazioni sindacali. D’altronde è vero che esse non sono immuni da errori, come chiunque.
Per una parte dell’opinione pubblica, il sindacato avrebbe tradito i suoi valori originari, generando delle distorsioni e dunque, nel lungo periodo, danneggiando la propria immagine. Eppure un tempo fare il sindacalista era un motivo di orgoglio, prestigio e vanto. Era un “mestiere” considerato nobile e rispettato, sia dai colleghi in fabbrica che dall’opinione pubblica. E, in molti casi, ancora lo è, come ci è largamente riconosciuto dalle persone che entrano in contatto con noi.
Il sindacato, una rappresentanza in crisi
A dire il vero, la crisi odierna della rappresentanza non coinvolge solo il mondo del lavoro, ma anche la politica, le istituzioni e tutto il mondo associativo. Questo causa un’insicurezza che sembra pervadere una società sempre più sfibrata e connotata dall’individualismo. Si perde la capacità di sentirsi parte di un tutto e di mettere a fuoco una prospettiva comune. Non solo: venendo meno il senso di comunità, ognuno percepisce la propria immagine come frammentata, riflessa in uno specchio rotto.
Non si tratta però di cedere a tentazioni nostalgiche. Perché il sindacato torni a svolgere la fondamentale funzione a cui assolveva un tempo e possa quindi rivendicare un ruolo propositivo nella società e nei luoghi di lavoro, è necessario realizzare una transizione delicata e difficile. Uscire dall’accerchiamento, mettersi in discussione, ritornare alle origini, ammettere con umiltà gli errori commessi e analizzare i cambiamenti che negli anni hanno modificato stili di vita, composizione delle classi sociali, contesto industriale e produttivo. Sono i compiti a cui chi pratica questo mestiere con passione non può sottrarsi.
Non basta dire “faccio sindacato” per essere un buon sindacalista. Per esserlo davvero bisogna saper cogliere i reali bisogni di chi si vuole rappresentare e avere una visione strategica del mondo del lavoro, essere fieri e saper raccontare le cose buone che tutt’ora si fanno per lavoratori e pensionati, senza aver paura di criticare con forza quei comportamenti che sono all’origine dell’immagine di un sindacato resistente ai cambiamenti e incapace di produrre qualcosa di nuovo.
È ciò di cui parlerò in questo pezzo, assumendomi la piena responsabilità di quel che sono stato in questi anni. Rivendico a pieno titolo, e senza rinnegare nulla, il mio impegno totale di sindacalista. E di essere, convintamente, un sindacalista della Cisl. Per una scelta precisa, dettata dal tentativo di riportare tutto sui contenuti, non citerò nessuno dei miei colleghi contemporanei, meritevoli (e di sindacalisti capaci, a tutti i livelli, ce ne sono tantissimi) o meno.
Cominciare dagli “errori”
Un primo atteggiamento di cui bisogna cominciare a sbarazzarsi è la tendenza ad autoincensarsi e assolversi. Questo, in un mondo che non riconosce neanche le cose veramente importanti che il sindacato fa per i lavoratori e i pensionati, è davvero paradossale. La tanto professata “infallibilità” non comunica alcuna sicurezza, trasmette solo molta arroganza. Più si è impegnati e più si sbaglia. Bisogna innanzitutto accettare che questo postulato vale anche per il sindacato. Per citare Pierre Carniti, bisognerebbe, almeno, iniziare a fare degli «errori nuovi» e non ripetere quelli già commessi, perpetuandoli.
Iniziando a riconoscere gli errori commessi bisogna ammettere che in molte, troppe occasioni non si è riusciti ad anticipare il cambiamento del lavoro, della produzione, ma anche della società e dei bisogni delle persone.
La “libertà” riconosciuta dall’art. 39 della nostra Costituzione («L’organizzazione sindacale è libera») è stata interpretata in maniera troppo conservatrice, difensiva e autoreferenziale, bloccando la capacità del sindacato di autoriformarsi e di snellire la burocrazia che caratterizza la sua struttura. Il precetto del dettato costituzionale, che ancora oggi è uno dei nostri valori fondamentali, è divenuta libertà di non cambiare. In passato, anche nei casi di buona gestione, la trasparenza amministrativa, necessaria per mostrare soprattutto agli iscritti come venivano investite – fino all’ultimo euro – le preziose risorse che derivano dalle tessere, non è stata curata a sufficienza. Di giovani e precari si è parlato molto, ma senza fare abbastanza per loro.
Per spiegare la crisi attuale non basta usare la retorica del “distacco dalla base”. Il sindacato è molto più vicino alla propria gente di qualsiasi forza politica: non esiste un’altra organizzazione di rappresentanza che sia così capillarmente radicata nei posti di lavoro, nelle province di tutta Italia. Ma non si può negare che la distanza dai lavoratori e, forse, persino dalla realtà, sia aumentata, anche perché ci si è spesso accontentati di rappresentare coloro che erano già iscritti al sindacato, senza riuscire ad allargare lo sguardo a tutte le persone che non hanno più fiducia nel sindacato, che non lo conoscono affatto, lo trovano “inutile” o addirittura “dannoso”, ma che forse sono quelle che ne avrebbero più bisogno.
Certo, a livello europeo l’Italia continua ad avere un tasso di sindacalizzazione superiore alla media (36% a fronte del 23%). Soltanto i Paesi scandinavi, che arrivano a superare anche il 70%, fanno meglio. Va precisato che in questi Paesi (ad esempio la Svezia) gli accordi valgono solo per gli iscritti al sindacato. Non solo, in Germania il sostegno salariale ai lavoratori in sciopero viene concesso solo agli iscritti e questi sono gli unici a poter votare gli accordi o la proclamazione degli scioperi.
In Italia i non iscritti beneficiano delle stesse prerogative degli iscritti e ne hanno una in più: quella di criticare qualsiasi cosa faccia il sindacato, perdendo la pazienza quando i contratti tardano ad arrivare, senza mai prendersi la responsabilità di sostenerlo come fanno invece gli iscritti, contribuendo in termini partecipativi alla vita e al cambiamento del sindacato. I non-iscritti sono tra coloro che sostengono, furbescamente, che siamo la causa di tutti i mali, ma guai se il risultato della nostra azione, i contratti, non portasse benefici anche a loro. Il sindacato non piace? Bisogna sapere che non è di proprietà di nessuno, o meglio, il sindacato è di chi si iscrive. Chi lo vuole cambiare dovrebbe prima di tutto iscriversi e, in questo modo, portare idee nuove, diverse. Altrimenti è troppo facile, è la solita furbizia di chi critica, ma poi se ne approfitta.
Da operatore sindacale territoriale, tentavo costantemente di entrare in aziende dove alle assemblee partecipavano non più di tre persone e nessuno si iscriveva al sindacato. In quelle aziende, appena scoppiata la crisi, improvvisamente non c’era più posto a sedere nelle assemblee e dalla fiducia totale e indiscriminata per il datore di lavoro si passava al radicalismo più marcato nei suoi confronti. A crisi conclamata è tutto più difficile, ma non ci sono scuse, secondo questi lavoratori noi abbiamo il “dovere” di risolvere i problemi anche per loro, anche se ci hanno sempre ignorato.
In termini qualitativi, la nostra rappresentanza presenta tre ordini di criticità: l’età media degli iscritti, la concentrazione prevalente nei luoghi di lavoro collettivo, sia pubblico sia privato, di dimensioni medio-grandi e, soprattutto, la generale tendenza al calo della sindacalizzazione. La media europea è passata dal 27% del 2000 al 23% del 2013.
Di fronte a queste sfide, spesso la risposta che si dà non è all’altezza. Un sindacato nemico delle riforme, dell’innovazione e del progresso è contro natura. Il sindacato, che era nato come soggetto di protagonismo civile e di protezione sociale e che, a questo scopo, si era messo alla guida delle riforme prendendo in mano la bandiera del progresso, è stato, negli ultimi anni, sempre più identificato come un custode della conservazione.
Ma questo conservatorismo non è in grado di reggere i mutamenti, il passaggio epocale dalla classe operaia della grande fabbrica fordista alla fabbrica moderna, ai lavori, alla moltitudine dei lavoratori e all’individualizzazione. L’identità individuale delle persone è caratterizzata sempre meno da mutue similarità e sempre più da mutue differenze, dalla multiformità. Questo ha completamente cancellato il modo tradizionale che il sindacato aveva di collegarsi alle persone. Per fare il sindacalista oggi occorre fare attenzione alla complessità e rinunciare al “ma anche”: bisogna scegliere, individuare priorità, avere la capacità di formulare proposte unificanti, che tengano conto della dimensione “sartoriale” delle forme organizzative da mettere in campo.
«Non c’è nulla di più ingiusto di fare parti eguali tra diseguali»: un principio che è sempre stato vero, ma con l’attuale crescita delle disuguaglianze – frutto anche della crisi economica, finanziaria e sociale – proseguire lungo questa via aggrava la situazione, continuando a premiare chi ha già più tutele, un reddito più alto, una protezione sociale maggiore. Se non si sa scegliere tra settori industriali con reali prospettive su cui puntare, la scelta la farà il mercato, non sempre garantendo competitività e tenuta sociale.
Abusi dei diritti che uccidono i diritti
Un sindacato che vuole essere credibile con i lavoratori, che si rifiuti di ingannarli, che resti al loro fianco nei momenti difficili, deve saper distinguere tra chi lavora bene e chi non lavora o fa il “furbetto”. Difendere i diritti, senza sanzionare gli abusi dei diritti, fa sì che alla fine gli abusi erodano i diritti. Ad esempio, la legge 104 del 1992 sui permessi e le agevolazioni per i disabili e i loro familiari sancisce un diritto sacrosanto, che oggi viene purtroppo messo in discussione per i troppi abusi che hanno portato taluni persino a ipotizzare la cancellazione della legge.
Allo stesso modo, i peggiori nemici dei poveri sono i falsi poveri, destinatari di agevolazioni e di assistenza a cui non avrebbero diritto e protagonisti, in quanto evasori fiscali, di vere e proprie rapine a discapito degli onesti e dei poveri veri. Il sindacato tradizionale ha sempre avuto un rapporto difficile con la meritocrazia e la professionalità, che invece devono essere alla base della promozione e della tutela del lavoro. Chi attaccava il privilegiato o il fannullone era accusato di fare un “compromesso al ribasso”, come se l’obiettivo sindacale potesse consistere nell’estendere privilegi immeritati o nel garantire la possibilità di fare i fannulloni.
In tempi difficili per il movimento sindacale è molto utile ritornare agli insegnamenti dei grandi maestri. Io ho avuto l’enorme fortuna di incontrarne più di uno, come ad esempio Gelmino Ottaviani, scomparso a febbraio del 2016: storico leader dei metalmeccanici della Fim Cisl di Verona, era prima di tutto un operaio, definito “profeta”, un testimone per tutto il movimento sindacale, un maestro per molti giovani sindacalisti.
Le sue parole, scritte nel 1953, suonano ancora come le campane di cui era un abilissimo suonatore e sono più attuali che mai: «Servono almeno un metro uguale per tutti, regole non scritte, da non cambiare in corsa, cipolle per resistere e senso del limite. Senso del limite. Perché se no, sei un poveretto, anche se sei miliardario». Gelmino ha insegnato il significato delle parole “dovere”, “responsabilità”, “libertà” e “limite”: un patrimonio di valore inestimabile che non bisogna sprecare.
Cercherò di raccontare la mia esperienza e dimostrare non solo che le generalizzazioni non aiutano mai il cambiamento, ma che il sindacato può essere per le nuove generazioni di ragazze e ragazzi una straordinaria opportunità per fare grandi cose, per dare gambe e cuore alle idee. So anche di essere fortunato perché sono cresciuto in un luogo, la Fim Cisl, in cui ho sempre trovato libertà e laicità. Vittorio Foa, storico e prestigioso segretario della Cgil, diede la più bella definizione della Fim: «La Fim è una bellissima organizzazione di minoranza che punta con forza alla primazia della categoria, consapevole che per centrare quell’obiettivo è condannata a pensare».
Oggi la posta in gioco è ancora più alta: a essere in gioco è il sindacalismo in quanto tale, la forma di solidarietà collettiva che i lavoratori si sono dati da duecento anni per la difesa e il miglioramento delle proprie condizioni. Oggi non basta “pensare”: bisogna anche sentire l’impulso e avere il coraggio di rimettersi in discussione.
Morire di retoriche novecentesche
In tutte le epoche ci sono sindacalisti che vivono di discussioni sugli assetti interni per consolidare il loro potere e promuovere status e carriera. Sono quelli che hanno sempre considerato la contrattazione e il rapporto con i lavoratori quasi un fastidio e i contenuti (per non parlare del confronto autentico su di essi) qualcosa di secondario.
Se quei sindacalisti sono stati dannosi in tutte le epoche, oggi rischiano di condannare il sindacalismo al declino inesorabile. La mia severità viene dalla consapevolezza che siamo alla vigilia del secondo balzo in avanti dell’umanità e che cambierà tutto.
Non serve solo capacità di adattamento, serve progettualità di anticipo rispetto ai cambiamenti. Sono stato deriso quando ho iniziato a parlare di Industry 4.0 nel 2014, lo stesso per lo smart working e oggi sulle blockchain. La Gig economy entra con diversi gradi in tutti i settori e c’è ci pensa solo a che categoria merceologica faccia riferimento. Quando il nuovo lavoro devia completamente dall’autostrada bicolore del lavoro dipendente o autonomo.
Il ‘900 è inadeguato a farci leggere il domani, ma è tanto confortevole: consente di non cambiare,nell’illusione di fermare l’acqua con le mani, e invece di farci di metterci in gioco ci fa lasciare sempre più sole le persone, imbalsamati in forme organizzative e contrattuali utili più ai sindacalisti che ai nuovi lavoratori.
All’inizio della mia militanza sindacale vidi che era pressoché inutile fare prediche sull’importanza del sindacato. Non funziona. Per spiegarne l’importanza, basta vedere che cosa accade dove il sindacato non è presente.
Come vivevano i lavoratori prima di unirsi nel sindacato
Le condizioni di lavoro erano: – 16 ore di lavoro al giorno senza pause; – per 6 giorni; – per 52 settimane l’anno; – stipendio a discrezione del padrone; – niente ferie pagate; – niente permessi; – niente assenze per malattia. |
Alla fine degli anni Novanta fui incuriosito dall’esperienza che il governo di centrodestra irlandese – alle prese con una disoccupazione molto elevata – aveva messo in campo per attrarre investimenti industriali: proponeva basse tasse e zero sindacato. Furono lanciate delle vere e proprie zone union free. Organizzai due viaggi in Irlanda, con i giovani della Fim, per capire cosa stesse accadendo. Incontrammo il ministro del Lavoro che elogiò i loro grandi risultati in termini di occupazione e investimenti. Poi incontrammo i giovani del sindacato irlandese, la Confederazione Ictu. Era vero: arrivarono molte multinazionali americane, Motorola, Intel, ecc., ma il prezzo sociale da pagare era alto: contratti a termine a un mese (anche agli over 50), nessun salario minimo, nessuna distinzione tra orario “normale” e straordinario. Condizioni non accettabili negli anni Novanta, e che in molte aziende sussistono tutt’ora. In realtà i fattori di successo del modello erano da ricercare soprattutto in un buon livello di formazione, nel vantaggio della lingua, ma più che altro in un sistema di tasse molto contenute.
Se dobbiamo riconoscere che il sindacato ha il dovere di cambiare, dobbiamo anche ricordarci che nelle aziende senza sindacato si sta peggio. Ci sono imprenditori che sostengono di fare, da soli, anche la parte del sindacato, capireparto che promettono che penseranno a tutto, ma alla prima difficoltà questo paternalismo si sgretola e con esso il minimo rispetto per il lavoratore.
Questa non è una novità. Il paternalismo padronale della metà dell’Ottocento sosteneva l’inutilità del sindacato e della contrattazione, trincerandosi dietro a frasi come: «Voglio retribuire ogni operaio a seconda dei suoi bisogni e dei suoi meriti, e non voglio trattare con nessuno all’infuori dei miei operai». Se le condizioni fossero paritarie, questa vicinanza bonaria tra imprenditore e lavoratore sarebbe accettabile. In realtà chiunque può accorgersi che il rapporto tra impresa e singolo lavoratore, senza mediazione e organizzazione, si basa su uno squilibrio strutturale.
La sproporzione di potere, come si diceva una volta, tra il singolo lavoratore e chi detiene i mezzi di produzione, necessita del riequilibrio di un potere che altrimenti sarebbe indiscriminato e arbitrario. Fu così che nacque il sindacato: attraverso l’organizzazione dei lavoratori si produsse una spinta verso la capacità di educare al passaggio dal singolare al plurale per poter contare, e si elaborò lo strumento della contrattazione, offrendo protagonismo e rappresentanza, e creando un’azione collettiva per rispondere ai bisogni dei lavoratori.
La spinta etica del sindacalismo si basa sulla vittoria del principio di solidarietà, che va sempre riaffermato, sul principio astratto dell’individualismo. Ancora oggi nel nostro Paese, per fortuna solo in alcune aziende, si rischia il posto di lavoro se ci si iscrive al sindacato, in altre si distribuisce salario aggiuntivo pur di non avere iscritti al sindacato. Si getta un alone di disapprovazione sulla scelta di aderirvi.
Nel mondo si muore ancora nel fare sindacato. In Sudamerica, nel Nord Africa, in Asia e in Turchia si va in carcere e a volte si perde la vita per difendere i lavoratori. Tutte le dittature affrontano con durezza le loro opposizioni, ma sanno bene che, per avere campo libero, devono azzerare il lavoro organizzato, che è il vero argine a ogni totalitarismo di qualsiasi matrice. Anche nei civilissimi Stati Uniti, oltre a Brasile, India, Cina e Messico, non è stata ratificata né la Convenzione fondamentale del lavoro sulla libertà di associazione e protezione del diritto all’organizzazione sindacale n. 87, né la Convenzione sul diritto all’organizzazione e alla contrattazione collettiva n. 98 (a eccezione del Brasile).
Le indagini non sono chiuse, ma temo che dietro i motivi della vile uccisione di Giulio Regeni ci sia proprio il suo lavoro di inchiesta con i sindacati liberi egiziani.
I lavoratori, se stanno insieme, fanno più paura. Perché sono più forti e, lo dico con convinzione, sono più liberi.
* L’articolo è in parte tratto dal libro “Abbiamo rovinato l’Italia?” di Marco Bentivogli (Castelvecchi, 2016).
(www.informazionesenzafiltro.it, 13.06.2018)