La sfida culturale e contrattuale della partecipazione dei lavoratori
Marco Bentivogli entra in Fim Cisl nel 1994, dopo anni di lavori precari e studi economici. Nel 2008 l’approdo alla Segreteria Nazionale. Il 13 novembre 2014, su indicazione del Segretario uscente Giuseppe Farina, viene eletto Segretario Generale con 134 voti su 143 votanti. E’ stato confermato alla guida dei metalmeccanici Cisl con 97% dei voti il 9 giugno 2017 nel corso del 19° Congresso Fim Cisl tenutosi presso l’Auditorium Parco della Musica a Roma.
La partecipazione dei lavoratori costituisce da tempo un pilastro centrale in significativi contesti esteri (area “renana” e mondo scandinavo) che hanno saputo valorizzarla come fattore strategico per la competitività economica e l’inclusione sociale, in tal modo distinguendosi nello scenario globale per relazioni industriali costruttive basate sulla condivisione dell’interesse primario aziendale. Quali sono le potenzialità socio-economiche di questo orientamento?
“Libertà non è star sopra un albero… libertà è partecipazione”: così cantava tanti anni fa Giorgio Gaber. Poteva essere un bello spunto per il sindacato e le imprese e credo lo sia ancora. La Cisl per lungo tempo si è battuta in solitudine attorno a questo tema per farne un asse strategico delle politiche sindacali. In altri paesi – per esempio in Germania, in Svezia – si sono realizzate concrete forme istituzionalizzate di partecipazione dei lavoratori e delle loro rappresentanze nella vita e nella gestione delle imprese, con effetti sostanzialmente positivi sul piano economico e sul piano della coesione sociale.
Il caso della Germania (bassa disoccupazione, alta produttività, crescita economica vivace) dimostra come la pratica di relazioni industriali a conflittualità ridotta e ad elevata partecipazione si traduca in oggettivi vantaggi sia sul piano economico che su quello della coesione sociale. In Italia invece il rapporto tra impresa e lavoro oscilla tra vecchio paternalismo, che lascia molti spazi alla conflittualità fine a se stessa, e la difficile ricerca, attraverso la contrattazione, dell’equilibrio tra gli interessi e i valori delle imprese e quelli dei lavoratori.
Questo secondo approccio, che poi è quello della Fim e della Cisl, ha prodotto accordi importanti e consentito di gestire la crisi di questi ultimi anni. Tuttavia anche chi, come noi, ha sempre privilegiato la ricerca dell’equilibrio, pensa che le relazioni industriali abbiano bisogno di un salto di qualità. Il cerchiobottismo pigro, concepito “per non avere problemi” nel breve periodo, ha alimentato conflitti continui e inspiegabili per il normale buon senso. Quel che è certo è che non si può stare in mezzo: il rischio è dare lavoro agli avvocati e far proliferare conflittualità e contenziosi che sono il segno più marcato dell’inadeguatezza del sistema. Il perenne dibattito sull’esigibilità dei contratti – per non dire dell’altro problema, differente ma connesso della loro proliferazione (abbiamo 80 contratti nel solo settore industriale, 708 totali) – dovrebbe essere una tautologia in un Paese avanzato, mentre da noi si è trasformato in un tormentone.
Ciò la dice lunga sulla necessità di far evolvere e maturare le relazioni industriali, a partire dalla cultura delle parti che ne sono protagoniste. In questo senso il contratto dei metalmeccanici firmato nel novembre scorso anno rappresenta uno strumento di sostegno alle forme e alle pratiche più evolute ed efficaci di partecipazione dei lavoratori nella gestione dell’impresa. La digitalizzazione del lavoro (Industria 4.0) sta riconfigurando l’idea di produzione e lavoro riconfigurandone i modelli organizzativi in termini di spazio, tempi e ingaggio cognitivo delle persone. Questo presuppone un sempre maggiore “coinvolgimento” della componente umana nel miglioramento del processo produttivo e del prodotto. Le fabbriche intelligenti senza le persone non funzionano. La conseguenza necessaria e diretta sarà l’accesso a forme nuove di partecipazione del lavoratore alla gestione strategica d’impresa. Nella nostra visione olistica di Industry 4.0 e di sviluppo, l’idea antagonista e quella padronale di relazione industriale finiscono definitivamente in soffitta. Non solo sono inutili, sono entrambe dannose e “luddiste”. Servono strumenti diversificati in grado di cogliere le specificità anche relativamente alla taglia dimensionale dell’impresa. Nelle imprese medio-grandi, come si sta sperimentando in alcuni grandi gruppi, bisogna lavorare su un’evoluzione della governance in direzione del sistema duale. C’è poi tutto un lavoro inedito di rappresentanza e partecipazione sulla frontiera della gig economy che andrà implementato. Non dimentichiamo che le relazioni industriali partecipative influenzano in positivo la dinamica della produttività, rendendo più attraente per gli investimenti territori e paesi in cui questo nuovo equilibrio tra capitale e lavoro si realizza.
Quali gli elementi che ne hanno impedito il decollo in Italia?
La nostra Costituzione afferma “Il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende” (art. 46 Cost.) e “l’accesso del risparmio popolare al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese” (art. 47 Cost.). Anche il preambolo della Carta comunitaria riconosce che “il consenso sociale concorre al rafforzamento della competitività delle imprese e dell’economia nel suo insieme, nonché alla creazione di posti di lavoro”. Il quadro di riferimenti legislativi dunque è ricco. Ma il tema della partecipazione, come d’altra parte tutto quello che riguarda il lavoro, in Italia è caduto vittima di dispute ideologiche. Quindi la prima cosa da fare è de-ideologizzare il dibattito intorno al lavoro facendolo diventare terreno d’incontro e di partecipazione e crescita.
Tutta la rappresentanza oggi è investita da una profonda crisi: se non vogliamo che la delegittimazione e l’incapacità di azione travolgano interamente anche il mondo del lavoro, serve il coraggio di scelte innovative e radicali verso la partecipazione. Il settore metalmeccanico, in cui opera la Fim, è storicamente uno dei più ostici alla partecipazione. Molto spesso incontriamo aziende chiuse all’innovazione e aperte invece a un consociativismo permanente con le frange più antagoniste del sindacato. Le imprese devono uscire da questo guado. La partecipazione dà stabilità ed efficacia alle relazioni industriali, è decisiva nei momenti di crisi, ma ancora di più quando si devono creare le condizioni di investimento e di sviluppo. Interessanti studi del Max Planck Institute sul sistema duale confermano che avere per il management una “controparte” sindacale preparata, informata e coinvolta, rende lo stesso non solo più attento alla sostenibilità sociale dell’impresa ma anche a quella industriale e finanziaria e il sindacato più responsabile e maturo. La partecipazione necessita di un sindacato all’altezza, serio, competente e rigoroso, ovvero la versione più lontana dall’antagonismo cieco e allo stesso tempo dal servilismo aziendale. Le esperienze dimostrano che serve più distinzione di ruolo tra le parti, in funzione della loro rappresentanza: quello che cambia appunto è il terreno di confronto, la condivisione di alcuni obiettivi comuni come premessa. Anche il conflitto, se perimetrato in forme che non contraddicano gli obiettivi comuni, è utile alla partecipazione, la tiene viva. Bisogna superare l’informalità non codificata con regole precise su ciò che si deve necessariamente condividere per tempo, regolare le clausole di riservatezza e le reciprocità dei comportamenti. Questo al fine di superare la variabilità e l’emotività che contraddistinguono spesso le vertenze italiane, influenzate spesso più dalla domanda mediatica che dalle necessità di un vero confronto negoziale.
Quali le strategie prioritarie a livello legislativo e di rapporto tra le parti sociali, complementari ai temi della rappresentanza e della contrattazione, per una riforma sistemica delle relazioni industriali italiane?
Sui temi della partecipazione il nostro Paese sconta un ritardo forse anche culturale, da cui i sindacati non sono esenti. Quindi la prima cosa da fare è quella di condividere e far conoscere le buone pratiche di partecipazione realizzate a cui far seguire interventi normativi. Storicamente la Cisl non è mai stata favorevole a un intervento legislativo sulla rappresentanza. Questa diffidenza era conseguenza diretta dell’avversione, maturata in reazione a quanto avvenuto in epoca fascista, per ogni tentativo di “statizzazione” della società ad opera del potere politico. Negli ultimi anni è però maturata un’evoluzione che ha portato a riconsiderare parzialmente questa posizione. Il motivo va rintracciato nell’emergere, nel tessuto sindacale, di tendenze indisponibili all’assunzione collettiva di responsabilità, non di rado sfociate in un aperto (e deleterio) populismo sindacale. I casi recenti di Alitalia e Almaviva, in cui frange minoritarie sono riuscite, con le armi della demagogia, a far saltare accordi che garantivano occupazione e investimenti pur in un quadro di deterioramento evidente delle finanze aziendali, stanno a dimostrare la pericolosità del fenomeno.
Di questa pericolosità tra i metalmeccanici c’è da tempo consapevolezza. La vertenza Fiat rappresenta al riguardo un antecedente della massima importanza. Si è visto in quell’occasione che cosa ha significato l’impossibilità di garantire l’esigibilità degli accordi firmati con la controparte: una lunga e dolorosa spaccatura tra i sindacati e la fuoriuscita del gruppo da Confindustria, evento che ha oggettivamente comportato un indebolimento del sistema di rappresentanza. Per tutte queste ragioni la Fim ritiene che sia arrivato il momento che il legislatore metta mano alla materia, non però per dettarne in modo autoritativo la disciplina, ma in sintonia con le parti sociali, recependo cioè un’intesa maturata liberamente tra loro. Del resto un’intesa tra sindacati e Confindustria era stata già trovata con il Testo unico sulla rappresentanza del 2014, che per la prima volta ha strutturato in modo compiuto la materia; ma è noto che le resistenze, annidate tanto tra le imprese che in campo sindacale, hanno reso sostanzialmente inoperante quel documento. Una ragione in più, dunque, per riaffermare la necessità di una copertura legislativa.
Tornando alla partecipazione, con l’eccezione della Cisl, i sindacati italiani non ne hanno mai fatto un pilastro della loro cultura. Da parte nostra, forse per un periodo, abbiamo esaltato troppo la partecipazione all’azionariato dei dipendenti come unica forma di coinvolgimento, non cogliendo le tipicità del sistema industriale italiano. Alcune esperienze, anche per il destino infelice del valore delle azioni, non hanno nel tempo suscitato grande popolarità tra i lavoratori. Credo quindi che sia opportuno, anzi inevitabile, allargare lo sguardo all’esperienza tedesca di partecipazione alla governance, con forme che possono variare in ragione della specificità del tessuto imprenditoriale italiano, nel quale scarseggiano le aziende di grandi dimensioni.
Serve un sindacato che abbia il coraggio di abbandonare le forme e i tempi delle ritualità. Riti sempre più inefficaci che, oltre ad offendere l’intelligenza delle parti e dei loro rappresentati, delegittimano parole e impegni. Si investe più sulla stanchezza delle delegazioni che sulla comprensione e l’intelligenza. La Fim e la Cisl, al contrario, si sono sempre mosse investendo sulla consapevolezza di chi rappresentano.
Il ruolo dei lavoratori, soprattutto nelle moderne imprese postindustriali, non è quello di un semplice strumento nelle mani del proprietario dell’impresa. Il livello culturale dei lavoratori, il loro ruolo in azienda, il loro contributo al successo dell’impresa sono molto cresciuti e diventano sempre più decisivi. E’ ora di alzare il punto di incontro tra imprese e lavoro organizzato.
La via italiana alla partecipazione non è la semplice importazione di modelli di altri paesi, serve una “tastiera di strumenti partecipativi” che diffonda la partecipazione in un tessuto industriale, come il nostro, fatto di imprese con taglia dimensionale molto piccola. Nuovo Welfare, diritti di informazione e consultazione, contrattazione territoriale, di rete e di filiera, sono, tra gli altri, spazi in cui il ruolo di rappresentanza va rilanciato dentro le sfide comuni tra impresa e lavoro. Serve una scommessa reciproca che è prima di tutto culturale, specie alla vigilia della quarta rivoluzione, dove la capacità di fare sistema non sarà una opportunità in più ma ne sarà una precondizione.