Non tutto quello che ci viene dalla “globalizzazione” è un problema per il sindacato: può essere anche risorsa e questo è forse il caso dello storico tema della partecipazione. Dalla Scandinavia agli Usa, dalla Germania alla stessa Italia, non son poche infatti le positive esperienze di collaborazione tra sindacati e aziende in cui – anche sulla spinta della grande crisi post 2008, gli attori delle Relazioni sindacali sono spinti a ripensare i propri comportamenti. L’idea dello studio che segue – pubblicato sul n.3/2016 di “Vita e pensiero” – è che il “coinvolgimento del lavoro” nelle vita d’impresa può essere “chiave di successo nella nuova competizione globale”.
Da sempre, fin dalle origini del Movimento Operaio e dell’Industria moderna, manager e sindacalisti hanno tentato esperienze di collaborazione, magari utopiche, spesso fallite, qualche volta positive; mai però si è andati oltre l’eccezione, il “caso di studio” come si dice. Qualcosa è però cominciato a cambiare una ventina di anni fa quando, proprio nel pieno della Globalizzazione, una letteratura anglosassone più avvertita scriveva di un “inaspettato riemergere della questione del lavoro” come questione centrale delle moderne democrazie di mercato e dell’emergere qua e la di un nuovo tipo di sindacalismo partecipativo, battezzato da uno studioso di Harvard “Partecipatory Unionism”.
Una breve panoramica di casi esteri – in paesi di antico capitalismo e di altrettanto antico, e glorioso, sindacato – ci aiuta a capire meglio questo nuovo fenomeno.
Il primo è l’ambiente scandinavo, specie svedese, dove dagli anni ’30, dopo aspri conflitti, è in vigore il modello degli Accordi quadro: in pratica ogni anno le parti sociali scrivono – in autonomia da leggi e governi – un accordo bilaterale in cui definiscono contenuti, limiti, confini, procedure, ecc. delle relazioni sindacali garantendosi: a) reciproco riconoscimento, b) amministrazione bilaterale delle controversie; c) prevenzione dei conflitti. Un modello che dura, nonostante la parentesi degli anni ’70 (in cui si tentò, senza successo, la strada dell’intervento legislativo) sorretto da un altissima sindacalizzazione e da una forte partecipazione dei lavoratori alla vita sindacale e da una parallela, alta, rappresentatività della locale Confindustria. Se non mancano problemi (ad es: l’ingerenza della legislazione europea) sindacati e imprese svedesi hanno tutta l’intenzione di proseguire nel loro antico-moderno metodo e i risultati economici e sociali si vedono.
Il secondo caso è quello della Chrysler, la grande impresa dell’auto USA famosa in Italia perché assorbita dalla Fiat (oggi FCA): in questa fabbrica un sindacato forte (la United Automobile Workers – UAW), che ha iscritto quasi tutti i lavoratori, ha prima salvato l’azienda stessa acquistando, nel momento della crisi, circa il 50% delle azioni, rivendendole poi, dopo il risanamento, alla nuova proprietà. Un fatto che l’UAW non considera un caso di “democrazia economica“ (diremmo noi) quanto di semplice “senso di responsabilità” sindacale per ridare competitività alle produzioni e salvare posti di lavoro, secondo la tipica mentalità di quelle parti. L’aspetto di Democrazia si è visto casomai in un altro episodio, passato quasi inosservato sui nostri giornali: quando gli iscritti hanno respinto un accordo raggiunto dai loro vertici con Marchionne. Nessun problema: nuova piattaforma, nuovo accordo e nuovo referendum stavolta accettato dagli iscritti. Un episodio ancor più significativo in un paese, gli Usa, dove una legislazione invasiva, nata nel 1935 per “sostenere” il sindacato, è ora diventata una trappola che ostacola la sindacalizzazione.
La legge è invece importante nel terzo caso, quello tedesco, (la Mitbestimmung) che ha creato nel 1951-52 Consigli d’azienda e Comitati misti di sorveglianza: istituzioni collaborative che funzionano abbastanza ma che nulla hanno a che vedere con la contrattazione collettiva vissuta da sindacato e imprese (Tarifautonomie) in autonomia ma anche con senso di responsabilità. E’ questa in realtà la vera marcia in più del Sistema-Germania nella competizione globale e lo dimostra la cronaca recente. Nel 2004 l’IG Metall concluse con le imprese l’Accordo di Pforheim con cui una forte flessibilità interna alle imprese, gestita consensualmente da direzioni e sindacati, scavalcando di fatto la legislazione, faceva sì che azienda per azienda, per la durata della crisi, si realizzava uno scambio tra garanzia dell’occupazione e moderazione salariale: senza licenziamenti individuali o collettivi per ragioni economiche, con la rinuncia dei lavoratori ad alcune voci della retribuzione e con il loro impegno a riorganizzare al meglio la produzione e a ridurre i costi interni. L’accordo fece scuola in tanti settori e i risultati si son visti: se in Europa (e da noi) si licenziava in Germania si tratteneva il più possibile la manodopera e, passata la tempesta, si è via via ritornati al pieno regime, salariale e occupazionale precedente.
Partecipazione dunque come soluzione per tutto? E’ troppo presto per dirlo: certo la sfida, in questa fase di cambiamenti rapidi e profondi, è evidente: il coinvolgimento del lavoro appare un’arma in più per il futuro dei sistemi produttivi, a patto però di un vero cambiamento di mentalità, che ciascuno è chiamato a realizzare nel solco della propria storia, tradizione, cultura. Certo è che globalizzazione e crisi spingono sindacati e imprese a ripensare i propri comportamenti verso forme nuove di cooperazione, una volta impensabili. E da parte sua il sindacalismo democratico non può dimenticare che, nel suo DNA, la partecipazione del lavoro, non è solo necessità economica per tempi di crisi, ma parte importante del suo patrimonio storico di aspirazioni e valori.
(www.lavoroitalianoagroalimentare.eu, 25.07.2016)