C’è un problema di cui i responsabili del sindacato non sembrano rendersi conto. Si tratta della progressiva tendenza a concentrare l’azione sindacale esclusivamente sulla funzione di “microcontrattazione” aziendale abbandonando l’impegno ad agire per incidere sul governo delle variabili macroeconomiche. Se questa tendenza dovesse proseguire, l’azione delle organizzazioni dei lavoratori resterebbe confinata nella intersezione tra l’insieme delle variabili microeconomiche e l’insieme territoriale locale.
Che questo sia sufficiente per la tutela degli interessi dei lavoratori è dubbio per due ragioni. La prima è che gli stessi interessi dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono fortemente legati al contesto macroeconomico; gli stessi margini di negoziazione per la contrattazione aziendale e le stesse possibilità di partecipazione delle rappresentanze dei lavoratori sono condizionate dall’andamento delle variabili macroeconomiche. Basti pensare al legame tra le varie forme di precariato e il tasso di disoccupazione, o al legame tra variabile salariale e stato di salute dell’economia, ivi compresi le dinamiche della produttività e i fattori esterni all’impresa che incidono sulla competitività. Anche l’organizzazione del lavoro dipende in larga misura dalle tecnologie adottate, le quali a sua volta risentono delle generali politiche di ricerca e sviluppo stimolate dalle politiche industriali. La seconda ragione è che gli interessi dei lavoratori che necessitano di tutela vanno ben oltre i confini della fabbrica. Può succedere infatti che mentre i rappresentanti dei lavoratori sono intenti a contrattare le condizioni di lavoro in azienda non si accorgano che gli interessi degli stessi lavoratori vengono lesi attraverso la demolizione del servizio sanitario, attraverso il disfacimento del futuro lavorativo dei figli, attraverso la riduzione dei servizi di assistenza all’infanzia e agli anziani, attraverso l’accrescimento delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito, attraverso l’aumento delle tariffe e delle imposte locali, attraverso il peggioramento del sistema dei trasporti, attraverso il deterioramento della qualità dell’ambiente e del decoro delle città, e così via. Bisogna essere consapevoli che la contrattazione decentrata a livello aziendale è in grado di tutelare efficacemente gli interessi dei lavoratori se è parte integrante della contrattazione collettiva nazionale e se si inquadra in una rete complessiva di partecipazione ai processi decisionali che riguardano le scelte di politica economica (nazionale e locale) i cui effetti ricadono appunto sui lavoratori. Altrimenti si tratta di una ritirata del sindacato che, forse inconsapevolmente o forse per comodità, va a infilarsi in un sacco che lo priva del ruolo spettante a tutti gli attori sociali in una società democratica. Bisogna riconoscere che esistono poderose forze obiettive che spingono il sindacato alla ritirata. Forze che anziché essere subite passivamente dovrebbero invece essere regolamentate e governate. Tra queste va richiamato in primo luogo il processo di globalizzazione, che, da un lato rende gli strumenti concettuali e operativi del sindacato, concepiti esclusivamente su scala nazionale, relativamente impotenti e dall’altro, accentuando la pressione della concorrenza e della competitività, spinge le imprese a evitare di vincolarsi con contratti collettivi nazionali e a ridimensionare il sindacato a micro-istituzione aziendale indebolendolo anche con la possibilità dell’ “off-shoring”. Vi è poi la complessa e crescente finanziarizzazione dell’economia, che sottraendo risorse alla accumulazione di capitale e introducendo una instabilità sistemica danneggia l’economia reale, le prospettive di crescita e i livelli di occupazione. Va poi menzionato il processo di innovazione tecnologica e organizzativa, da cui deriva una doppia asimmetria: quella tra paesi, che induce a compensare i gap tecnologici con svalutazioni salariali e quella tra professioni iperspecializzate e mestieri unskilled, che, con la frammentazione delle tipologie lavorative e le nuove forme di organizzazione del lavoro, favorisce la contrattazione individuale rendendo difficile organizzare una rappresentanza collettiva dei lavoratori. Infine c’è lo schiacciante ruolo delle politiche neoliberiste e recessive imposte dalle autorità economiche dell’Unione Europea e dai trattati ad essa collegati. Alla stringenza delle modalità imposte per il consolidamento fiscale si aggiungono raccomandazioni, richiami e pressioni informali di carattere prevalentemente ideologico dirette a promuovere “riforme” conformi ai principali articoli di fede del neoliberismo: contrazione della spesa pubblica e del ruolo dello Stato nell’economia, privatizzazioni, smantellamento dello Stato Sociale, deflazione salariale, riduzione del ruolo dei sindacati e della contrattazione collettiva, regime fiscale favorevole ai ceti più ricchi, deregolamentazione dei mercati. Posizioni ideologiche che hanno trovato espressione anche nel recente “jobs act”, ininfluente rispetto ai livelli di occupazione ma utile per riequilibrare a favore dei datori di lavoro i rapporti di forza tra le parti sociali. A questo punto del ragionamento ci si potrebbe chiedere perché mai voci esterne al sindacato, cioè a una libera associazione di lavoratori, abbiano la pretesa di suggerire di che cosa esso si debba occupare, e in secondo luogo se le organizzazione dei lavoratori siano legittimate a incidere sui processi decisionali relativi alle scelte di politica economica. Sulla seconda questione è facile richiamare il principio che in una società democratica e pluralista il ruolo della politica economica, che è un ruolo di coordinamento dei comportamenti di tutti gli agenti economici per il raggiungimento degli obiettivi comuni, non può che essere svolto attraverso il coinvolgimento della pluralità dei soggetti (individuali e collettivi) che compongono il sistema sociale. La letteratura economica ha esplorato a fondo le ragioni per cui né il metodo gerarchico né quello basato esclusivamente sui segnali di mercato sono in grado di svolgere con successo questo ruolo. E’ stata così individuata una forma di “governance” più idonea, consistente nel coinvolgimento, attraverso forme negoziali e partecipative, del maggior numero dei soggetti, e dei cosiddetti “corpi intermedi”, nelle scelte di politica economica i cui effetti ricadono su di essi. Tale forma di governance è sicuramente più complessa e richiede un maggior impegno sia da parte dei leaders dei processi decisionali e delle istituzioni pubbliche responsabili delle scelte, sia da parte degli attori sociali, tra cui appunto si collocano anche le associazioni dei lavoratori, al pari di tutte le rappresentanze di interessi che si organizzano per la propria tutela. E gli interessi dei lavoratori, come si è sopra accennato, sono fittamente intrecciati con le variabili sia micro sia macroeconomiche su cui operano le scelte di politica economica. La prima questione potrà affacciarsi alla mente di qualche esponente sindacale che, magari provando un senso di fastidio (…succede), potrebbe liquidare come improponibile la possibilità che dall’esterno del sindacato possano provenire considerazioni circa gli obiettivi e i compiti dell’azione sindacale. Ma tale reazione sarebbe ingiustificata, in primo luogo perché gli studiosi della società possono 3 benissimo esplorare i diritti e i doveri che in una società democratica stanno in capo ai soggetti e ai corpi intermedi che la compongono e che si articolano nelle varie forme di rappresentanza degli interessi. In secondo luogo perché queste considerazioni riprendono temi tutt’altro che assenti nella cultura sindacale. Nelle riflessioni compiute all’interno degli stessi sindacati sulla natura e il ruolo della loro azione si trovano ripetutamente richiami a questi temi. Negli scritti di Mario Romani (che possono considerarsi parte costituiva del patrimonio culturale della Cisl), per esempio, è ben presente la consapevolezza che il sindacato non possa ripiegarsi esclusivamente nel ruolo microeconomico di tutela degli interessi nei singoli luoghi di lavoro, ma debba piuttosto in quanto attore sociale collettivo assumere anche la responsabilità di rappresentare gli interessi dei lavoratori nell’intero complesso di relazioni interdipendenti che costituiscono il sistema economico. Fa parte della lezione di Romani l’idea che il sindacato debba entrare nei processi economici del sistema capitalistico e condizionarli e l’idea che per questa ragione “il sindacato come associazione e la sua classe dirigente pensino e si comportino come formazione sociale e classe dirigente “generali”- Il sindacato, pertanto, deve “essere il fattore determinante, corresponsabile e corresponsabilizzante della politica di sviluppo”. E’ evidente che per poter svolgere questa funzione partecipativa, qualunque sia la batteria di strumenti istituzionali e operativi predisposti, è condizione necessaria che le organizzazioni dei lavoratori siano in grado di comprendere le dinamiche economiche in atto e le connessioni che le legano agli interessi dei lavoratori che essi intendono tutelare. Se tale condizione mancasse, svanirebbe ogni possibilità di incidenza positiva della loro azione; in primo luogo perchè mancherebbe il collegamento strategico tra gli “obiettivi di lotta” e i reali interessi dei lavoratori in un sistema economico in profonda trasformazione, e in secondo luogo perché verrebbero meno l’autorevolezza e la capacità propositiva necessarie per partecipare costruttivamente ai processi decisionali di una “governance interattiva”. Quali forme tale partecipazione debba assumere oggi, quali modalità operative debba adottare l’azione del sindacato, è un problema che deve essere oggetto di riflessione permanente, per rendere l’evoluzione dell’azione sindacale appropriata all’evoluzione del sistema economico e sociale. Oggi sembra notarsi un ritardo in questa riflessione. Certo è che le tecniche di “concertazione” utilizzate nel passato non sembrano più adeguate alle mutate condizioni. Ma le nuove forme in cui il cosiddetto “dialogo sociale”, per usare la terminologia comunitaria, possa concretizzarsi per non restare una fascinosa formula astratta sono ancora da esplorare e da sperimentare, e ciò fa parte del cantiere aperto per una revisione del sistema di relazioni industriali. Esso riguarda la costruzione di una prospettiva completamente diversa su cui impostare il rapporto tra capitale e lavoro nel contesto delle attuali trasformazioni del sistema economico mondiale. Tale rapporto va ripensato per andare anche oltre il modello di “partecipazione” dei lavoratori inteso prevalentemente come partecipazione ai profitti o comunque al risultato economico dell’impresa, o come infiltrazione dei quadri sindacali nei consigli di amministrazione degli enti pubblici. Esso va allargato nell’ottica di una partecipazione dei lavoratori, attraverso le loro rappresentanze, alla costruzione di una strategia comune per la gestione collaborativa delle relazioni di produzione coerente con gli obiettivi di sviluppo condivisi. In assenza di questo si spalancherebbe la strada per frammentati comportamenti tattici in parte sterili e in parte forieri di tensioni e di instabilità di fronte alle trasformazioni profonde dell’intero sistema. Perché il sindacato possa procedere in questo processo di aggiornamento deve però compiere alcuni passi preliminari. Il primo consiste nell’abbandonare tutti quei comportamenti devianti per cui molto spesso i dirigenti o i “rappresentanti” sindacali perseguono, ad ogni livello, i propri personali interessi anziché quelli dei “rappresentati” (l’irrisolto “problema di agenzia”). Il secondo consiste nel dotarsi al proprio interno di adeguate strutture permanenti di studio e di ricerca, idonee alla comprensione delle dinamiche economiche e alla formulazione di linee strategiche di riferimento per la quotidiana azione sindacale. In terzo luogo è necessaria una intensa attività di formazione per i propri associati che vada oltre “l’addestramento professionale” di “specialisti della contrattazione”, per promuovere una profonda maturazione culturale e civile dei lavoratori, sostenendo l’acquisizione di strumenti analitici per lo sviluppo delle capacità critiche e per l’accrescimento di quelle che, con linguaggio di Sen, potrebbero chiamarsi le “capabilities” necessarie per essere protagonisti di “cittadinanza attiva”.
(Nota isril n. 14/2016, www.isril.it)