Il loro momento di gloria è durato un paio di mesi, il tempo in cui il resto d’Italia si chiudeva in casa terrorizzato dal coronavirus, lasciandosi invece contagiare da un improvviso, patriottico entusiasmo per infermieri, medici e farmacisti. Lavoratori essenziali la cui essenzialità si è però rapidamente appannata a emergenza superata, tanto da costringere proprio gli infermieri a scendere in piazza per chiedere salari e condizioni lavorative migliori.
La questione, però, non riguarda solo coloro che fino a poche settimane fa venivano descritti come “angeli”, “eroi”, “il meglio dell’Italia”: la pandemia ha infatti rivelato con incontestabile chiarezza che esistono decine di professioni poco considerate e rispettate dalle quali dipendono la nostra quotidianità, le nostre abitudini, i nostri lussi e vizi.
Fattorini, commesse, operai, conducenti dei mezzi pubblici, netturbini, trasportatori, magazzinieri, persino giornalisti: tutte persone che non hanno mai smesso di lavorare per far sì che gli altri potessero stare in casa a proteggersi, per garantire la continuità di certi servizi e per evitare il collasso del sistema economico nazionale.
“Nel gergo microeconomico i lavoratori essenziali sono quelli senza i quali altri non possono operare e che sono quindi ‘strategici’, non solo per la dignità del lavoro ma per la loro funzione”, spiega Lorenzo Sacconi, docente di Politica economica all’Università di Milano, direttore del centro interuniversitario EconomEtica e membro del Forum Disuguaglianze e diversità.
“Se durante l’emergenza questi lavoratori manuali essenziali, oltre ai medici, si fossero rifiutati di lavorare l’intero sistema sarebbe crollato: il concetto di ‘essenziale’ sarebbe stato chiaro a tutti, e sarebbe stato ovvio riconoscerlo con una qualche partecipazione di questi lavoratori ‘essenziali’ al governo di impresa”.
Non è successo per spirito civico dei singoli, ma il civismo non è stato sufficiente perché lo Stato e le imprese ripensassero al loro ruolo, né a quello di molti altri lavoratori. Per questo circa 5 mila tra economisti, ricercatori e docenti universitari, il cui nome più noto a chi non si occupa di economia è Thomas Piketty, hanno firmato un documento intitolato “Democratizing work” in cui invitano i governi del mondo a usare l’opportunità offerta dalla crisi per un vero cambiamento: democratizzare il lavoro e demercificare le imprese.
Ossia, spiega il documento, “proteggere alcuni settori dalla legge del cosiddetto libero mercato”, perché “come dopo le due Guerre Mondiali si è riconosciuto il contributo innegabile delle donne alla società dando loro il diritto al voto, così oggi appare ingiustificato negare l’emancipazione di chi investe il suo lavoro e il riconoscimento dei suoi diritti di cittadinanza all’interno delle imprese”.
L’invito è a ripensare il modello di governo dell’impresa attribuendo ai lavoratori un ruolo non più solo di prestatori d’opera – spesso pagata non adeguatamente – bensì strategico, per distribuire il valore creato in un’ottica di giustizia sociale.
In concreto si tratta di proporre, ogni Paese con le sue modalità, dei modelli di co-decisione dei lavoratori alla governance dell’azienda, come già oggi accade in Germania e in Olanda.
L’esigenza è cruciale considerato che 25 anni di globalizzazione hanno favorito solo “coloro che già stavano al vertice della distribuzione del reddito, con incrementi tanto più elevati maggiore era la posizione di partenza”, dice Sacconi.
Lasciare che sia il mercato a determinare il reddito provoca disparità che si attenuano solo in parte con la tassazione (si chiede di più a chi guadagna di più), perché “il mercato non è un allocatore in base al merito, non esistendo una concorrenza perfetta”.
Tradotto: non è vero che i più pagati e quelli con più opportunità siano necessariamente i più capaci, e viceversa.
D’altra parte “le capacità vengono formate e distribuite prima di entrare nel mercato e dovrebbero esser sostenute da diritti di decisione nel mercato: se la giustizia sociale non plasma queste condizioni, siamo soggetti al paradosso della tela di Penelope per il quale ogni tentativo del welfare state di rendere meno ingiusta la società viene disfatto da istituzioni di mercato largamente imperfette e inique”.
È dunque necessario pensare a come ridurre queste storture allontanandosi al contempo da un capitalismo che ha come mantra la massimizzazione dello shareholder value, il valore per l’azionista, concetto nato e proliferato negli Stati Uniti sotto l’egida di Milton Friedman: un modello “che l’Italia tende a imitare nei modi peggiori, cui ha tardivamente aderito con la riforma del diritto societario del 2003 e che bisogna invece superare per riconoscere diritti di partecipazione ai vari stakeholder, per primi i lavoratori, che possano così proteggersi contro comportamenti opportunistici, in tal modo salvaguardando il valore degli investimenti in capitale umano (efficienza) e l’equità distributiva alla fonte”.
Come? Con la creazione dei cosiddetti “Consigli di lavoro e di cittadinanza” nell’impresa che, onorando quanto previsto dall’articolo quattro della Costituzione, riprendono (e migliorano) l’esperienza di co-determinazione della Germania e dell’Olanda.
La proposta, elaborata dallo stesso Sacconi assieme al giurista Francesco Denozza, per il Forum Disuguaglianze, prevede l’istituzione di una rappresentanza permanente dei lavoratori nella governance aziendale.
Il consiglio dovrebbero avere il diritto di informazione, consultazione e co-determinazione sulle scelte strategiche e sui loro impatti sulla vita materiale dei lavoratori: fusioni, delocalizzazioni, innovazioni tecnologiche e loro impatti sull’organizzazione del lavoro e sui livelli occupazionali e salariali. Nei consigli siederebbero anche rappresentanti dei consumatori e, più in generale, delle comunità interessate dall’impatto ambientale delle attività dell’impresa: la triste saga dell’Ilva e il ricatto dell’alternativa tra salute e lavoro spiegano magistralmente questa necessità.
I Consigli del lavoro e della cittadinanza potrebbero inoltre coinvolgere i lavoratori di una impresa indipendentemente dal contratto, nonché gli occupati dell’intera filiera, con l’obiettivo di rappresentare gli interessi di tutti, come il sindacato non riesce a fare.
Un buon esempio è la logistica, in cui operano fattorini e altre figure con contratti di ogni tipo, con un impatto non solo sull’“azienda madre” ma su molti piccoli subfornitori collegati: coinvolgerli nelle scelte, secondo il Forum, sarebbe un modo per migliorare le condizioni di tutti.
“Nonché per migliorare le perfomance: la democrazia industriale e l’efficienza non sono affatto in contrasto, come dimostra la fiorente industria automobilistica tedesca”, puntualizza Sacconi.
Il problema, fin troppo evidente, è convincere le aziende a sposare la proposta dei 5 mila di “Democratizing work” e del Forum disuguaglianze: il capitalismo italiano non ha dimostrato di essere particolarmente incline a condividere i risultati con i propri lavoratori, e men che meno le scelte che li riguardano. Eppure, conclude Sacconi, “una discussione politica democratica, un dibattito collettivo ampie e imparziale potrebbe cambiare anche le preferenze delle imprese. Ci sono sacrifici da fare, ma di fronte al disastro che stiamo vivendo, e all’incertezza sul futuro di ciascuno, anche le aziende possono capire l’importanza di abbandonare comportamenti opportunistici”.
(Gea Scancarello, 01.06.2020, it.businessinsider.com)